Peppino

Giuseppe svenne. Si sentì un tonfo lieve, come di panni che cadono; precipitò il suo corpaccione fuori forma al suolo. Era un giovane anziano, aveva venticinque anni, per carattere ne dimostrava sessanta. Posato, mansueto, elementare. Aveva corteggiato Anna dall’età di sedici anni, con ostinazione asfissiante, con la caparbietà ottusa di chi ama. Lei non lo voleva. Non era bello. Tarchiato, abbondante, con una stempiatura precoce a incorniciare la faccia buona, con un sorriso troppo largo a squadernare la dentatura irregolare. Lui non aveva mollato: appostamenti, attese di ore sotto al posto di lavoro, pedinamenti a scoraggiare insidiosi pretendenti. “Una volta ero con un’amica e due bei giovanotti che avevamo conosciuto, sedevamo in un giardino, quando sentii le fronde muoversi…era lui, sprofondato dietro a un cespuglio. Peppino voi siete pazzo!”.
Lo hai amato mamma, alla fine lo hai amato? Gli ho voluto tanto bene, un bene immenso. Io non so cosa è l’amore. Lui mi ha amata.
Il fidanzamento durò sette anni. Senza mai un’intimità. Le rare uscite sempre sorvegliate da una piccola accompagnatrice-candela. Le due famiglie si frequentavano, entrambe assegnatarie di alloggi popolari nel nuovo quartiere senza storia chiamato Fuorigrotta, due tunnel oltre i quali iniziava la Napoli vera di Mergellina. Giuseppe al mattino passava al pianterreno di Anna e la salutava. Dalla finestra. Tornava la sera con un solo bisogno: salutare Anna sua. Uno sguardo, un sorriso, un movimento della mano e Giuseppe poteva sentirsi felice. Quanto è bella Anna mia. Signore Dio quanto è bella.
Anna era restia, timida, a volte pareva quasi infastidita da quell’esuberanza. Come quando lui s’appostava per interi pomeriggi sotto alla casa delle maestre sarte che le insegnavano l’arte e lei era costretta a scendere per intimargli di andarsene, che non poteva stare lì, ore e ore a rimirare una finestra vuota, ad attendere che finisse, solo per vederla andar via col suo severo padre. Una volta era riuscito a trovarla da sola, le attese millenarie erano state premiate, si era precipitato ad accompagnarla a casa, a distanza si intende. Lei davanti, lui dietro.

È questa la felicità? Questa struggente sospensione del tempo in cui lei è qui. Era spuntato suo padre. Lo aveva visto. Si era avvicinato ad Anna con passo nervoso, le aveva rifilato uno schiaffo, secco e violento. Ad Anna era uscito il sangue dalla bocca.
Allora si era deciso a farsi avanti, nonostante le resistenze tenaci di lei, a dichiararsi al padre, a fidanzarsi ufficialmente, come si usava, come la buona creanza richiedeva. Anna aveva capitolato, piegata dalla sovrumana costanza dell’amore.
Il fidanzamento era durato sette anni e il vertice della trasgressione erano le mani di Giuseppe che sfioravano quelle di Anna mentre fingeva di sottrarle un nipotino che lei aveva in braccio.
Dopo il servizio militare, si era dato da fare, si faceva voler bene per i modi gentili, il sorriso mastodontico e il nitore dell’animo. Era un buono Giuseppe. Tutti dicevano “È buono Giuseppe. La persona più buona che abbia mai conosciuto”. La vaghezza del concetto di bontà non rende giustizia alle anime buone. Giuseppe non avrebbe mai imbrogliato, calpestato, usato un altro essere umano. Giuseppe non conosceva il male.
Fu assunto come contabile senza averne il titolo, il principale gli affidò la gestione di una pescheria in perdita, credeva in questo giovane con il sorriso sgrammaticato della bontà. Lui ci sapeva fare davvero. Iniziò a fornire di pesce fresco tutti ristoranti del litorale domizio. Tutti i giorni caricava la sua Bianchina e andava e veniva da Pinetamare. Anna sulla Bianchina non ci saliva più, poiché ogni volta che ne usciva i gatti la seguivano fino a casa. Era Anna il motore immobile della frenesia produttiva di Giuseppe: sposarsi, avere una casa, un figlio addirittura. Anna meritava il meglio e lui lavorava e lavorava, senza sentire la stanchezza. Anna, Annuccia mia.
Mangiava male, ghiotto di fritture e frittatine, a volte si addormentava in macchina.
Si sposarono. Anna era bellissima col velo lungo e l’abito bianco che si era cucita da sola. Lui radioso. Il sorriso che ondeggiava da un orecchio all’altro. Anna aveva un’aria impacciata, vagamente malinconica, da principessa anglosassone o da piccola fiammiferaia. Giuseppe, rubizzo, in abito blu elegante, era un uomo buono felice.
Anna tornò dal viaggio di nozze così come era partita: casta. Undici mesi dopo nacque Michele. Chissà come. Giuseppe vedendolo, svenne.
Le cose precipitarono. Le vicende umane inevitabilmente precipitano. Le muove un moto non rettilineo che tende verso il basso. Esse non conoscono stabilità. Franarono rovinosamente, ineludibilmente.
Mi passerà, questa sensazione di insostenibile sonnolenza mi passerà. Basterà appisolarmi un poco qui, in auto, pochi minuti e sarò a posto. Lavoro troppo. Dormo poco. Mangio male. Avrò i nervi affaticati. Ma se chiudo gli occhi dieci minuti mi riprenderò. Anna non deve sapere, Anna deve badare a Michele e non deve preoccuparsi anche per me. Anna non lo saprà.
Trovavano Giuseppe addormentato in macchina, ai bordi delle strade cittadine. Una volta la stradale, una volta un amico. E lui a giustificarsi, “ho preferito riposare un momento piuttosto che rischiare un colpo di sonno, ho socchiuso gli occhi e mi sono addormentato. Mai mi era successa una cosa del genere. Mai in vita mia”. Invece succedeva sempre più spesso. Ma Anna non doveva sapere. Anna accudiva Michele. Michele e Anna sono la mia vita.
Si gonfiava, si dilatava, aveva un colorito giallognolo e un’aria spossata. Dopo otto anni, prese un giorno di riposo al lavoro, si mise a letto. Una febbriciattola si insinuò subdola. Le mani sembravano gonfiate a elio. Il sorriso era sparito. Risucchiato.
Anna si impose, devi andare all’ospedale, no vedrai che mi passa, se tieni a Michele vai in ospedale.
Al Cardarelli non ci capirono niente. Il rene non drenava più. Con un catetere svuotarono le membra rigonfie di urina. Ne riempirono un secchio. Le sostanze tossiche si riversavano all’interno. Il corpo avvelenava il corpo. Giuseppe diventava giallo. Anna piangeva. Michele dormiva.
Dopo quindici giorni si sollevò bruscamente col busto dal letto d’ospedale, si aggrappò con forza disperata alle braccia di Gennaro, il padre di Anna: “Papà non voglio morire”. E spirò.