Per farlo contento
L’estate del 2019 ho deciso che non ne potevo più e che volevo star sola. Almeno un mese di beata solitudine. Detto fatto: ho preso per un mese un piccolo appartamento sulla costa del Cilento, due stanze e un bagno arrampicati su uno strapiombo roccioso dove si arrivava solo con una scaletta a chiocciola che non augurerei al mio peggior nemico. L’appartamento, come tutti quelli dei vicini, aveva un indirizzo, ma nessuna buchetta della posta (erano tutte case-vacanza) e il postino non passava mai.
Una mattina di inizio agosto, uscendo dalla porta-finestra nella veranda, ho notato una cartolina posata sul tavolo.
Lì per lì ho pensato che fosse un messaggio della padrona di casa. Ma di solito mi scriveva su WhatsApp. La cartolina aveva sul retro una veduta tipica della mia città natale. Nel riquadro dell’indirizzo c’era scritto solo LAURA, in lettere grandi e fuori dalle righe. Là dove di solito si mettono i saluti, la stessa mano stentata aveva scritto: CIAO VIENI.
Sospirando mi sono appoggiata al parapetto di ferro, guardando il mare e la scogliera. Ovvio, mi sono detta, proprio l’estate che decido di staccare mi tocca sistemare faccende vecchie di anni. Devo dire che la tentazione di accendermi una sigaretta è stata molto forte, ma da quando mio fratello è scampato al carcinoma al polmone ho smesso per la strizza, e così mi sono limitata a ingozzarmi di biscotti. Sono rimasta sveglia per tutta la notte, con gli occhi aperti nelle tenebre, pensando e ripensando. La mattina dopo ho concluso che difficilmente avrei trovato una soluzione senza conoscere di preciso il problema. Neanche cinque minuti ed ero in macchina. Uscii dall’autostrada dopo un paio d’ore, allo svincolo con la mia città natale, e parcheggiai sotto la mia vecchia casa.
La stradicciola chiusa, stremata dal caldo di agosto, era silenziosa come una tomba di famiglia che nessuno cura più. I condomini mi parevano lapidi alte fino al cielo. Le finestre erano chiuse, le tapparelle abbassate, gli appartamenti probabilmente deserti. Scesi dalla macchina, mi guardai intorno. All’incrocio passò un signore grasso con due buste della spesa e scomparve senza nemmeno accorgersi di me. Ispezionai la facciata del condominio. La finestra della mia vecchia casa era l’unica aperta. Dopo essermi guardata intorno ancora una volta, aprii in tutta fretta il portone, e senza accendere la luce salii i cinque piani di scale nella tenebra fitta e fresca, senza scarpe, un passo alla volta, i tacchi appesi alle dita della mia mano destra.
Ci volle un po’ prima di avere il fegato di aprire la porta. No, sbaglio – non era tanto una questione di coraggio, quanto di riuscire a rimanere lì, in quel luogo e in quel tempo; di non permettere ai ricordi di trascinarmi via come un’onda di marea. Rivedevo mio fratello Alfredo (quello del polmone, ma è successo dopo – all’epoca aveva solo sei anni) sbattuto a calci fuori dalla porta e rovinare sulle scale. Poi me, presa per i capelli e spinta dietro di lui. E infine l’altro fratello, Silvano, che per solidarietà si rifiutava di sedersi a tavola con mamma e Moreno, e ci raggiungeva sulle scale. Ci passava dei cioccolatini, quando riusciva a fregarli senza farsi vedere. Quante lunghe serate passate seduti sul pianerottolo, ad aspettare che Moreno sbollisse e ci rifacesse entrare, o che si addormentasse sul divano – e allora mamma chiotta chiotta ci faceva sgattaiolare in camera. Alfredo spesso aveva un braccio rotto o il naso che colava sangue. In quel caso, anziché a letto, lo portavamo al pronto soccorso. Mamma raccontava che era caduto mentre andava sui roller e con tutto che lei per prima aveva lividi un po’ dappertutto, nessuno ha mai fatto due più due.
Ok, ho provato a non ricordare e il risultato è stato pietoso. Non mi restava che aprire la porta. Mi ha assalito un odore acre, un puzzo di marcio. La finestra era aperta, ma il sole non batteva più da quel lato e mi muovevo in una penombra azzurrina. Il pavimento era appiccicoso – senza volerlo ho dato un calcio a una bottiglia di birra. Superai il divano sfondato, il tavolo rovesciato, l’armadio aperto con tutti i piatti e i bicchieri rotti a terra – fui costretta a rimettermi i tacchi, o mi sarei bucata le piante dei piedi coi vetri. La tappezzeria sulle pareti era piena di strappi un po’ in tutte le direzioni, come se uno avesse preso il muro a unghiate.
Imboccai il corridoio che dava sulle altre stanze. In camera di mamma e di Moreno era stata spalancata la finestra che dava sul cortile interno, e siccome lì batteva il sole, ne usciva un lago di luce. Fu probabilmente per quello che mi accorsi subito del piede sul limitare della camera.
Mi avvicinai.
Il piede era seguito da una gamba, a sua volta attaccata a un corpo. Pallido com’era, con tutto il gorgo di sangue che aveva vomitato, non ebbi difficoltà a riconoscere Moreno, riverso per terra a pancia in su accanto al suo letto. Lì per lì pensai: è morto. Poi mi accorsi che respirava debolmente e aveva gli occhi semiaperti. Questo non andava bene per niente. Mi guardai ansiosamente intorno. La camera da letto era piena di luce. Mi saltò all’occhio un’anta dell’armadio sulla parete opposta, completamente aperta. Da un lato c’erano i vestiti appesi. Dall’altro, proprio sulla traiettoria del sole, un buco di tenebra.
Mi salì dai piedi alla faccia uno strano sollievo gelatinoso, uno scioglimento, e mi scappò un sorriso, di quelli orrendi e contratti che fa la gente quando non sa bene che faccia fare. Scavalcai il corpo del porco e mi sedetti sul letto, guardando dentro l’armadio aperto.
– Ti ho visto, dissi.
Ci mise un po’ a rispondere. Cominciai a sentire uno scatto dal centro della tenebra, e un pigolio – come di un coccodrillo che sta per uscire dall’uovo. All’inizio mi sentii perduta: è passato troppo tempo, non capirò nulla. E invece alla fine del pigolio avevo capito.
– Sì, la cartolina è arrivata.
Tornò a pigolare, pianissimo. Le sue parole parevano tanti chicchi di grano strofinati sulla stoffa. O mani impolverate che passavano sopra la stoppia riarsa. O lineette sperse nell’aria vuota.
– Sì, me lo immagino.
Mi voltai verso Moreno.
– Che gli è successo?
– – –
– Puoi essere più specifico?
– – –
Rimasi un po’ delusa dalla sua risposta. Dopo anni che conviveva con Moreno (o meglio: che viveva dentro di lui), mi aspettavo che ne capisse un po’ di più, sulla fisiologia umana. Dal suo confuso resoconto mi parve d’intendere che due giorni prima Moreno aveva avuto una specie di ictus. Non aveva fatto in tempo a chiedere aiuto e siccome da quando mamma se n’era andata viveva da solo, nessuno si era accorto della sua assenza. Non era morto, ma l’emorragia cerebrale ormai era irreversibile e sarebbe schioppato nel giro di poche ore.
Feci la finta tonta:
– E quindi? Peggio per lui. Tu che c’entri?
– – –
– Ah. E non potresti tornare da dove sei venuto?
– – –
Una risposta tutto sommato comprensibile: scema io a fare la domanda. Che ti aspettavi, Laura?, mi dissi. Sai benissimo dove e come viveva questo poveretto prima di attaccarsi a Moreno. Come puoi pensare che voglia ritornarci?
– – –
Saltai giù dal letto, sbattendo a terra il tacco.
– No. Scordatelo.
– – –
– No. Inaccettabile. Mi dispiace. Lo so che non mi tormenteresti come hai fatto con Moreno. Ma non ho intenzione di passare il resto della mia vita con te dentro.
Forse lo spaventai. Non rispose.
Mi sedetti di nuovo, costernata. Avevo esagerato: non potevo fingere che non fosse affar mio. Avrete ormai capito che io e questa creatura avevamo un patto, stretto tanti anni fa. Ma non è che fosse venuto lui da me; ero stata io a cercarlo, chiamarlo, e offrirgli Moreno; ed ero l’unica che potesse salvarlo dalla morte del suo ospite. Dunque la responsabilità era mia e mia soltanto e non potevo sottrarmici. Certo, ospitarlo io era fuori discussione. Ma non avevo nemmeno il diritto di appiopparlo a qualunque altro essere umano. Ok, forse non avevo il diritto nemmeno di farlo entrare dentro Moreno – ma avevo sedici anni, Alfredo fra un po’ finiva al cimitero, quella scema di mia madre non sapeva in che mondo si fosse, nessuno denunciava Moreno, nessuno voleva aiutarci. In tutte le favole che ho letto da bambina il protagonista ha un patrigno o una matrigna stronza cui fa fare una brutta fine – mi sentivo legittimata, capite? Tra l’altro, mica ho ucciso Moreno. L’ho solo dato in pasto all’amico qui, che in cambio gli ha impedito di fare a pezzi la mia famiglia, finché uno dopo l’altro non ce ne siamo andati da casa.
A un certo punto parlò.
– – –
Sospirai.
– Lo so che hai paura. Non preoccuparti. Ci penso io.
E sentii nella mia testa l’ondata della sua improvvisa tranquillità. Avevo il coltello dalla parte del manico, potevo lasciarlo morire. Ma la sua parte dell’accordo l’aveva mantenuta. Come uscire da questa strettoia?
Mi cadde qualche goccia di sudore sugli occhiali. Cercai nella mia borsa la salvietta per pulirli. Mentre frugavo, ebbi un sospetto.
– Hai costretto Moreno a scrivere la cartolina?
– – –
– In che senso, ‘l’hai scritta tu’?
– – –
E lì mi venne l’idea. Tirai fuori dalla borsa un quadernino che avevo comprato pochi giorni prima ad Acciaroli, in un negozietto in riva al mare. Sembra fatto apposta, pensai. Era in carta riciclata, c’era una foresta sulla copertina. Non so perché ma mi ha acchiappato subito.
– Puoi stare qui dentro.
– – –
– No. Non devi stare per forza dentro una persona. Va bene qualunque oggetto.
Ebbe un attimo di esitazione. Poi:
– – –
– Sarà come quando sei entrato nella cartolina. Solo che qui c’è molto più spazio.
– – –
– Senti, se poi proprio non lo sopporti, prenderò un gatto o un cane o un pappagallo o che so io, e starai là. Ma non c’è più tempo per i dubbi. Moreno sta morendo. E quando morirà morirai con lui, o peggio, tornerai da dove sei venuto.
– – –
– Ma certo che ti terrò con me. Sempre. E da qui potrai anche parlarmi più spesso. Basterà che tu scriva sulle pagine del quaderno.
– – –
– Lo sai fare eccome. La cartolina, ricordi?
– – –
– Tutto il tempo che ti serve.
– – –
– Bravo.
Moreno ebbe un sussulto. Aprii il quaderno, tirai fuori dalla borsa le chiavi di casa e a forza di punzonarmi mi aprii sul palmo della mano una piccola ferita. Qualche goccia del mio sangue cadde sul quaderno – come tanti anni prima era caduta su Moreno, mentre dormiva, dalle mia vena aperta. Un fulmine parve scoccare nella stanza. Il corpo di Moreno roteò su sé stesso, il buio nell’armadio scomparve; quando riaprii gli occhi, tutto era silenzioso e illuminato.
Ma il quaderno che avevo in mano giaceva sul letto, aperto alla prima pagina. Mi sporsi. Uno dopo l’altro comparivano segni d’inchiostro sul foglio bianco:
È DIVERTENTE.
– Lo so, risposi. – Adesso fammi chiamare l’ambulanza, e poi andiamo a casa.
E fu così che venne a stare da me.
Poverino, era buonissimo. Non dava nessun fastidio. Mi seccava lasciarlo a casa da solo quando ero fuori, per cui presi ben presto l’abitudine di portarmi il quaderno al lavoro, in giro con gli amici, nei miei viaggi. Se mi capitava di aprirlo, chi mi stava vicino notava che era fitto di scritte, e pensava che fosse il mio diario. Tornata a casa dal lavoro, specie d’inverno, lo aprivo sul lavandino prima di calarmi nella vasca da bagno piena di acqua bollente, o sul frigorifero mentre cucinavo, o sul comodino quando m’infilavo a letto. Aprendolo all’ultima pagina scritta, notavo spesso qualche riga in più, che il giorno prima non c’era.
CHE FREDDO OGGI.
– Vero? Non vedevo l’ora di tornare a casa.
AVEVI LE MANI GELIDE.
(Se ne accorgeva quando prendevo il quadernino dalla borsa per appoggiarlo su un mobile).
– Adesso me le scaldo. Senti, hai mai pensato che puoi scrivere anche in minuscola?
SÌ, MA MI DIVERTO DI PIÙ COSÌ.
Era curioso, ma mai impiccione. Ci mise dei mesi per chiedermi:
TUO FRATELLO SILVANO SA CHE SONO QUI?
– No. Silvano è fragile. Non capirebbe.
MA ALFREDO LO SA.
(Glielo avevo raccontato il giorno prima.)
– Lui sì. A lui posso dirlo. È Silvano che non capirebbe.
NON GLI VUOI BENE?
– Certo che gli voglio bene. Voglio bene a tutti e due i miei fratelli. Ma sono diversi.
Gli leggevo spesso ad alta voce i libri che stavo leggendo, specie prima di andare a dormire, sepolta nel mio piumone color lavanda. Era un lettore avidissimo, più di me.
– Per stasera basta. Ho sonno.
CHE SUCCEDE DOPO?
– Non ne ho idea.
POSSIAMO FINIRE IL CAPITOLO?
– No.
IRENE AMA BOSINNEY. LASCERÀ SOAMES?
(Avevo fatto lo sbaglio di leggergli la saga dei Forsyte di Galsworthy. Già a metà di The Man of Property era eccitato come un caimano. Andava pazzo per i romanzi familiari.)
– Lo scoprirai domani. Adesso dormi.
IO NON DORMO MAI.
– Sei veramente inquietante quando te ne esci con queste cose.
E mi voltavo sul fianco, scivolando nel sonno.
Passavano gli anni, e cominciava pure a preoccuparsi per me.
COSA AVEVI DA URLARE TANTO PRIMA?
– Ero al telefono. Il mio fidanzato è un coglione.
COME MORENO?
– No, stai scherzando? È un coglione, non un porco.
OK.
– Non dirmi che ti manca Moreno.
ERA NOIOSO. TU SEI DIVERTENTE.
E dopo qualche secondo:
SCRIVERE È DIVERTENTISSIMO.
E sotto quest’ultima frase, mise uno svolazzo.
Ci voleva poco a farlo contento!