Poesia di donna nera in America
«Scrivi come una donna nera che non è mai stata picchiata prima»: esordisce così, in una delle sue più note composizioni poetiche, Il treno dell’amica, la poetessa afroamericana Nikky Finney, attualmente una delle voci femminili più interessanti del panorama letterario e poetico statunitense. La sua esperienza di vita entra prepotentemente nel testo e si dispiega con una lucidità e una potenza narrativa senza pari: mentre sta leggendo, in un reading, i suoi versi dinanzi ad un folto pubblico a Filadelfia, le si avvicina una donna nera dal fondo della sala «…per osservare bene, / per chiedermi qualcosa che riteneva / stranamente mancasse / nella mia poesia di donna nera». All’inizio Nikky non comprende il senso di quella critica, non percepisce alcuna mancanza, ma la donna la incalza: «Non vi sono buchi di proiettile, / né ferite aperte, / nelle tue parole. / Come ci riesci? / Scrivere come se nessuno ti avesse mai picchiato prima?». Le si gela il sangue. La osserva attentamente. Comincia ad interrogarsi. Lei, Nikky Finney, intellettuale colta proveniente dalla buona borghesia della Carolina del Sud, è chiamata a confrontarsi con un’altra donna, afroamericana come lei, ma che porta impressi sul corpo i segni di una sofferenza vissuta, subita. Non può girarsi dall’altra parte, non può eludere la domanda. Questa donna era scesa da un treno per fermarsi a parlare con lei: «C’è un treno in sosta da qualche parte… / un carro merci… / che portava corpi di donne spezzate / le gambe fatte a pezzi, gli stomaci crivellati / di proiettili… / corpi di donna; / marroni, neri e lividi / che giacevano proprio come / fanno carbone, macchine e bestiame». Ha bisogno della sua risposta per dare un senso al suo dolore, alle ingiustizie subite e mai raccontate, per spiegarlo a sé stessa, ma anche alle altre donne che l’attendono lì, sul treno. Una scena le si offre dinanzi agli occhi, agghiacciante, disperatamente vera: «Sai quante volte mi hanno accoltellata? / Sollevò la camicetta / fin sopra i seni / i tagli su di lei / somigliavano / a una grottesca carta da parati…». Un corpo straziato, martoriato, di chi ha avvertito sulla propria pelle il peso della sua condizione, di chi non ce l’aveva fatta a riscattarsi in una società di bianchi dominanti, di maschi al potere. Le si parano in quel momento davanti tutte le dissonanze e le contraddizioni di un’America divenuta simbolo di libertà ma ancora divisa in mille anime, dilaniata da forti tensioni sociali, da enormi diseguaglianze culturali e di genere. La poesia non può ignorare, non può fingere di non vedere. L’impegno, politico e sociale prima che personale, è una urgenza, oltre che una necessità. L’epilogo al suo racconto in versi è un vero messaggio di speranza, un inno alla riconciliazione che non deve passare necessariamente attraverso le parole: «Mise la sua mano sopra la mia / chiese se potevamo alzarci / metterci schiena contro schiena / misurare le nostre differenze… / …Mi voltai / sollevai la mia camicia / e avvicinai il mio ventre liscio / al suo sfregiato; / i nostri ombelichi uniti, / a formare una sorta di nuova / linea equatoriale». Un confronto-incontro tra corpi in un mondo con il quale il colore della pelle ancora le spinge a misurarsi.
Tutta la poesia femminile americana contemporanea è una straordinaria poetica del corpo che accomuna, che unisce, che lega indissolubilmente. Un corpo che è sempre assurto a simbolo di vita, di amore, di accoglienza, ma sul quale si giocano ancora violente battaglie tra contrapposti impulsi, teatro di vita e morte, odio e amore, giovinezza e decadimento, dolore, rifiuto, abbandono. Il desiderio stesso di ribellione delle donne vittime di violenza passa attraverso questa canto del corpo. Versi lunghi, di impianto narrativo, nascono da una precisa volontà di testimoniare, di conservare la memoria del più recente passato di ingiustizie e di sopraffazione, di abusi perpetrati e reiterati, di lotte per il recupero dei diritti civili delle afroamericane, delle minoranze. «Oggi sono una donna / nera in America / …uno stato senza speranza / …con la stessa bocca con cui sputo / poesie / chiederò agli angeli di un dio creativo / di attutire i colpi / …oggi sono una donna / nera / un corpo di carbone / brucio sempre / e nessuno conosce il mio nome / sono una furia senza nome… / sono una gola graffiata dal blues / …che sogna una libertà». Mahogane Browne, quarantaquattrenne, drammaturgo, con il suo stile frammentato, racconta così, su di un sottofondo musicale blues e jazz, la difficile realtà quotidiana di una parte della società statunitense, che mortifica e imprigiona ogni desiderio di libertà, soprattutto quando è rinchiuso in un «corpo di carbone».
Come non lasciarsi sopraffare dall’orrore che troppo spesso dilaga nella ricca ed evoluta America? Come insegnare ai propri figli ad amare il mondo, quando ogni conciliazione tra bene e male sembra impossibile? Il messaggio della poesia al femminile non passa solo attraverso le rivendicazioni e le conquiste. C’è anche un canto che nasce dal sussurro, dall’intimità, dall’amore, dalla maternità. Questi i versi duri e veri di Maggie Smith, altra autrice insignita negli ultimi anni di numerosi premi, in Good Bones (“Buona ossatura”). «La vita è breve, sebbene lo nasconda ai miei figli. / …Il mondo è spaventoso / almeno al cinquanta per cento, ed è una stima / prudente, sebbene lo nasconda ai miei figli. / Per ogni uccello c’è un sasso scagliato a un uccello. / Per ogni bambino amato, un bambino mutilato, infilato in un sacco, / calato in un lago / …La vita è breve, sebbene lo nasconda ai miei figli…/ Sto cercando di vendere / loro il mondo. Ogni agente immobiliare che si rispetti, / mentre vi mostra un vero luogo di merda, vi parla sorridendo / della sua buona ossatura. Questo luogo potrebbe essere bellissimo, / vero? Tu potresti rendere questo luogo bellissimo».