1968, 1976, 2023: la Prima della Scala come termometro sociale

La Prima della Scala è il termometro sociale più affidabile che ci sia. Entra in funzione, puntuale, una volta all’anno, il 7 dicembre, il giorno di Sant’Ambrogio. Spesso ignorata, occupa due righe di attualità, qualche colonna d’opinione, e il giorno dopo si parla d’altro. Ma la rilevazione della temperatura del Paese rimane lì, negli annali. Questa particolare usanza inizia, per così dire, nel Sessantotto. Quella sera i più grandi volti della borghesia milanese entrarono a teatro con l’ombrello. Non tanto per la pioggia, ma per ripararsi dal lancio di uova marce e ortaggi di ogni tipo e forma. Lo scalpore fu incommensurabile: l’alta borghesia forse per la prima volta fu attaccata frontalmente nel suo luogo più sacro. Le foto delle pellicce imbrattate d’uovo fecero velocemente il giro del mondo. “I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento”, si legge su un cartellone, in riferimento agli scontri del 2 dicembre 1968 che avevano causato due morti. Il Paese era cambiato per sempre e colpire determinate fasce della popolazione non incuteva più (così tanto) timore.
Le proteste, dopo il 1968 e il 1969, scendono d’intensità e la Prima torna a essere fenomeno di costume. Nel 1973, ad esempio, si anticipa l’inizio dello spettacolo, così come imposto dall’Austerity. Il petrolio scarseggia e dopo mezzanotte non si gira in auto: neanche i Paperoni d’Italia sono esentati.
La marea, però, risale lentamente. Un nuovo tipo di contestazione cova nella città italiane, soprattutto quelle più industrializzate e sviluppate. In una manciata d’anni succede di tutto: si creano nuovi paradigmi di lotta, il fermento culturale è incontenibile, così come la sua controparte violenta. L’assenza di prospettive e la totale sfiducia verso le organizzazioni di partito aprono le porte a un nuovo tipo di impegno politico. Milano, in tal senso, è un laboratorio interessantissimo. Nel 1975 viene fondato il Leoncavallo, il centro sociale per antonomasia. Ma le iniziative si moltiplicano. Come un flusso incontenibile, i militanti lasciano le organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta Continua, l’autonomia operaia), diventate per molti più tradizionaliste della FGCI, e si dirigono verso nuove entità. Queste prenderanno il nome di Circoli del proletariato giovanile. Difficile spiegare, nel dettaglio, cosa fossero. Scriveva un ex-militante di Lotta Continua: “Allora preferivi stare al freddo, sulle panchine ma almeno potevi parlare di te stesso dei tuoi casini anche personali, trovare solidarietà al tuo stato d’animo (…) Lentamente, lentamente è maturata la decisione di fare qualcosa di più (…) Chiamarsi circolo proletario giovanile fu un attimo”.
Si trattava, quindi, di circoli di periferia, popolati dagli orfani della militanza tradizionale. La lotta si muoveva su un doppio binario: da un lato era culturale, ovvero antidotica allo sfruttamento e alla miseria quotidiana, dall’altro era materiale. I giovani rivendicavano “il diritto al caviale” e non solo si appropriavano di ciò che avevano bisogno, ma anche del superfluo. In uno slogan: il pane e le rose. Era una bomba ad orologeria, e la sua ultima fiammata divampò in una data ben precisa: il 7 dicembre 1976. Quella sera, per la prima volta nella storia in diretta televisiva, Franco Zeffirelli portava in scena l’Otello di Verdi. I Circoli avevano annunciato da tempo che non avrebbero assistito in silenzio alla sfilata “salotto buono” della città, per giunta in prima serata televisiva. Eloquente il titolo della rivista-manifesto Viola: “Questa “prima” non s’ha da fare!! Alla prima della Scala dopo otto anni”. Continuando a leggere:

“Il proletariato giovanile andrà alla Scala, ha bisogno di andare alla Scala (…) saremo lì a gridare che vogliamo vivere e che non siamo disposti a fare sacrifici (…). Ma c’è qualcosa di più dal 1968. (…) Noi rivendichiamo il diritto al caviale: perché siamo arroganti (forse perché è caratteristica dei giovani); perché nessuno potrà mai convincerci che in tempi di sacrifici i borghesi possono andare in prima visione e noi no (…) vogliamo semplicemente prenderci le pellicce che i borghesi portano a nostre spese e ostentano per umiliarci.”

Non si tratta più, evidentemente, del lancio di uova, ma di una guerriglia che si espanse per tutto il centro di Milano. ll bilancio fu pesantissimo: 221 fermi, 33 arresti e 11 feriti. Celebri, in tal senso, le immagini della polizia in assetto antisommossa che si aggirava nell’adiacente Galleria fra i volti increduli. L’indomani arriva anche l’indignazione sul giornale milanese per eccellenza, il Corriere della Sera, che parlò di “jacquerie senza bandiera”, “raid vandalici”, “riti tribali” e quant’altro. Era, con un mese d’anticipo, l’inaugurazione del Settantasette, l’ultima rivolta di massa del XX secolo. Il termometro aveva decretato la sua sentenza. La temperatura era salita così tanto che poteva solo scendere, ma i fatti del 7 dicembre 1976 (così come quelli del ’68) rimasero nella memoria di molti. Uno su tutti, Fabrizio de Andrè. Il cantautore genovese pubblicò nel 1978 Rimini, uno dei suoi album più cupi e oscuri. In Coda di Lupo, infatti, riesamina il fallimento della contestazione giovanile. Non poteva non passare per la Scala:

E forse avevo diciott’anni e non puzzavo più di serpente
Possedevo una spranga, un cappello e una fionda
E una notte di gala con un sasso a punta
Uccisi uno smoking e glielo rubai
E al Dio della Scala non credere mai

Passano gli anni, cambiano le usanze, si avvicendano i potenti. Nel 1984 Craxi e De Michelis furono costretti a entrare dalla porta posteriore; in tempi recenti, invece, la contestazione è diventata quasi fatto assodato e prevedibile. Lo scorso anno, infine, un nuovo capitolo nella storia della Scala. Quello dello spettatore che urla “Viva l’Italia antifascista” e viene identificato dalla Digos. Il termometro torna a salire.