Prima lettera
“Caro amico, tu mi solleciti su un argomento che obiettivamente cozza contro l’opinione comune di molti scienziati, filosofi della scienza ed epistemologi vari. Come sai dall’ultimo convegno a Parigi cui partecipai, ti ringrazio ancora della cura che avesti nel rendermi il soggiorno meno penoso, visto l’ambiente surriscaldato in cui si svolgeva [l’autore si riferisce qui al convegno tenuto nel semestre accademico 68/69 a Parigi sul tema Filosofia, Psichiatria e politica, ndc], le mie obiezioni non sono state accolte con la dovuta attenzione. Adesso non è il caso di soffermarsi troppo, nel caso lo faremo insieme visto che l’argomento t’appassiona e ne vuoi fare argomento di ricerca tua, su quelle contraddizioni emerse tra una filosofia che io chiamo della prassi volgare e una filosofia che abbia almeno alcune coordinate se non di certezza almeno di cognizioni accertabili. Non mi sono piaciute né le posizioni lacaniane, né quelle espresse con molto giudizio devo dire dalla filosofia della storia di M. Foucault, la sua archeologia dei saperi che più volte e in diverse sedi io direttamente a lui ho messo in discussione. Tu mi chiedi ma di che si tratta nella sostanza? Allora per brevità, visto che ho mezzo senato accademico contro e solo qualche generica pacca sulle spalle dei miei colleghi epistemologi che mi avevano consigliato di non entrare nel ginepraio accademico francese, ti accenno qui ad una serie di problemi emersi, che sono emersi nel dibattito e che non mi trovano come sai d’accordo.
a) La materia in discussione era: quale ipotesi di probabilità ha oggi l’epistemologia dei processi cognitivi di fronte alla necessità obbligata della dimostrazione della sua utilità?
b) Come rimettere insieme i cocci di un sapere logorato dal suo essere nel tempo, diventato un sapere astratto ed accademico, rispetto ad un sapere che abbia come fondamento una serie di esperienze in ambito sociale e politico?
Già posta così la questione per me è fuorviante, logicamente improponibile e per assurdo con effetto contrario alle argomentazioni pur eccellenti sulla pretesa utilità sociale della filosofia della prassi così enunciata da Althusser, che si erge a paladino di una sua integrale capacità di sintesi del materialismo storico, tanto per intenderci. Perché dico questo e poi rimandiamo ad altra lettera questo argomento che vedo ti appassiona molto.
Punto uno: dire che il materialismo storico, e in generale la storia ‘umana’, è immutabile nella sua formulazione originale, quella cui si riferiscono solitamente a Marx ed Engels e che basta aggiungere qualche formuletta in supporto alla ’sue deficienze storiche’, è dire una baggianata grande quanto una casa. Una contraddizione logica di primo grado che risulterebbe tale anche ad uno studente di primo anno di qualsiasi università occidentale.
Punto due: si fa di fatto ammissione di nessuna conoscenza di almeno due problemi sollevati dall’allievo di Hegel, sull’aspetto logico e di epistemologia logica di K. Marx e ripresi da Engels nelle sue note alla prefazione di Per la critica dell’economia politica. Ripeto alla struttura di logica epistemica introdotta da Marx (e non della sua lettura sociologica e metapolitica) che è la vera rivoluzione introdotta dal filosofo di Treviri. E come conseguenza di una lettura non materialista di Marx stesso. I Francesi odiano la logica hegeliana e sbagliano. La questione della ‘forma’, categoria della qualità della dialettica in Hegel come in Marx, è tutto. E Lenin se ne accorse quando scrisse quel noto appunto e cioè che i marxisti non avevano capito nulla di Marx perché non avevano letto la Logica di Hegel. Allora amico mio dov’è il problema? Che la dialettica hegeliana e poi marxiana sta tutto in quella negazione della negazione oltre la quale avviene un salto di qualità epistemologico, cioè la necessità di un’altra forma sociale, fino all’estinzione della dialettica stessa come critica pratica perché nella realtà non vi è più nulla da distruggere. L’errore che compie la scuola di Francoforte è tutto lì, un eterno ping pong che si definisce ‘dialettica negativa’, come dire una operazione a somma zero in cui non ci sono né vincitori né vinti. Strana questione questa, la logica allora sarebbe dire che 2+2 fa quattro, sempre e in ogni modo. Ma non è questa la categoria del giudizio, la categoria di giudizio è esattamente dire che la dialettica, e la dialettica storica, passa da una situazione di ‘quantità’, le forze in campo, ad una di qualità, il cambio di metodo e di ‘forma’ della storia. E questo prevede un’aspra lotta rivoluzionaria che ribalti sia lo schema logico che quello reale. La questione è dunque sostanziale nella misura in cui nella realtà del pensiero e della realtà reale, la metafisica occidentale non è mai morta e non si decide a morire. E parlo del pensiero sopra le cose e non del pensiero delle cose. Come cioè sia possibile al mondo delle cose, degli uomini e delle donne di parlare senza che nessun pensiero altro in qualche modo ne interpreti volontariamente o involontariamente i contenuti e il significato. Anche in termini di evoluzione o di modificazione, tranne a dire con la scolastica che tutto è fermo e trascendente, la questione è del ‘mutamento formale’. Non esiste nel mondo reale (e quindi nella sua forma logica) nessuna situazione a somma zero. Una eterna partita a scacchi come sosteneva Einstein, è, nel mondo reale, improponibile. Ed è la prima lezione del moderno, come in Machiavelli. Ma questa volta la rivoluzione deve avvenire nei sistemi di comunicazione simbolici, nei linguaggi e nella vita dei soggetti ‘parlanti’, siano essi comunità, individui o singoli. Quando Cristoforo Colombo incontrò per la prima volta le popolazioni indigene del Nuovo mondo si accorse che oltre a un dio non condiviso, c’erano anche linguaggi simbolici e una vita reale completamente diversa. Questa diversità doveva essere presa come presenza di civiltà e modi di vivere e comunicare differenti, non farne oggetto di sterminio e di ‘normalizzazione simbolica’, cosa che ha provocato l’estinzione di quelle civiltà e dei loro sistemi simbolici e privato noi della possibilità di una modificazione nostra in termini di civiltà, di linguaggi e di pensiero. Non era quello un pensiero ‘selvaggio’, come si premura di definirlo Claude Lévi-Strauss, ma un pensiero ad alta densità di significato simbolico. Un errore che ci è costato, insieme a tantissimi altri, carissimo e te lo spiegherò in una prossima lettera.”
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