Primo anche qui
C’era un rito che si ripeteva con la precisione di un pendolo, settimanalmente, sempre la domenica, che scatenava un’irritazione furibonda, una recalcitranza perdente, un dimenarsi sterile, un tedio risentito per l’artefice di una ostinazione metodica: la visita al cimitero a mio padre.
La sveglia all’alba, il cimitero a sostituire la scuola, la colazione accelerata, l’ansia di lei pressante. Bisognava prendere due pullman, il 141 sempre in ritardo, pieno zeppo di corpi opprimenti, trolleggiati in piedi colle gambe fiacche per strade butterate di sanpietrini, Foria, Carlo III, l’infinita squallida Doganella, avamposto di speranza per la meta prossima. Le persone si incollavano addosso, ti pressavano come una Manzotin umana, sudavano anche d’inverno, si lamentavano con le parole monotone dell’inutilità; qualcuno voleva fare il simpatico, anziché cedermi il posto, io lo detestavo dietro a un sorriso malinconico di circostanza, qualcun’altra mi faceva boccacce e smorfie scambiandomi per un cerebroleso della sua stessa genìa, la odiavo, augurandogli di cadere alla prossima curva. Finalmente, dopo un’agonia fisica di un’ora e mezza, il bus a destinazione apriva le porte e i corpi sfiatavano fuori, si affollavano compressi verso le piccole porte, senza ritegno, senza garbo, ostinati macchinalmente solo a uscire per primi, spingevano. Le anime devote, che in processione andavano a onorare i morti, calpestavano i vivi. All’esterno ritornava la condizione naturale dell’estraneità tra umani che, per un breve tempo, avevano condiviso una forzata odissea meschina.
Il vialone che conduceva al grande cimitero monumentale di Napoli era stracolmo di una turba umana in movimento soggiogata dalla frenesia. Sciamavano in mezzo a bancarelle improvvisate di fiorai, gettavano l’occhio sui petali e sui prezzi migliori, contrattavano senza fermarsi del tutto, sondavano il mercato, cercavano di farsi blandire come clienti scaltri e preziosi. Dagli scaffali di ferro straboccavano austeri tulipani rossi, indifese silene, delicate saponarie, rari ranuncoli, altezzose peonie, aristocratiche orchidee in cellophane, umilissime margherite a mazzi, altezzose iris dallo stelo lungo, allegre fresie, inopportune begonie, malinconici anemoni bianchi, minoritari crisantemi e protervi garofani. Era la dittatura dei garofani, rossi, bianchi, rosa antico, gialli, bicolore, sfumati di lilla. A dispetto del tronco tranciato si ergevano agili e secchi, coi gambi verdi, a offrirsi ai vivi per i morti. A mazzi, a mazzetti, in composizione, singoli, singolari, a bocciolo o aperti a corona, in mezzo alle urla mercantili di fiorai rinnegati e avidi, spietati e senza grazia. In mezzo a bancarelle profane di biscotti di Castellamare e di taralli dolci con la glassa, assediati da avanguardie di torrone, noccioline e granella, di caramelle e biscotti, con una solitaria eretica rivendita di pesce che portava la morte in mezzo ai morti, allettando i sopravvissuti che dovevano pur continuare a vivere.
Dopo una lunga passeggiata in discesa in mezzo a questo suk floreal-gastronomico si giungeva in uno slargo dove gli ingressi si biforcavano: a destra il cimitero antico, in cui giacevano defunti austeri, a sinistra quello moderno, dove le tombe avevano l’aspetto della serialità e dell’alienazione. Si entrava e di fronte vi era un palazzone tombale su cui si stagliava in stampatello un monito minaccioso RISORGEREMO. Ai piedi di questa collina cementizia del trapasso si allargavano due viali coi tigli, incastonati di piccole cappelle gentilizie, con angeli improbabili di guardia e luccicanti scritte dorate di commemorazione. Mentre mia madre mi strattonava la mano affinché accelerassi il passo, contemplavo rapito queste piccole cappelle di marmo, segno della volontà di distinguersi anche di fronte a ciò che non riconosce distinzioni. Erano quasi sempre vuote, chiuse da un cancelletto di ferro, oltre il quale il defunto attendeva senza speranza un visitatore, in cambio gli era toccato il marmo superbo e non i garofani proletari. In fondo al vialetto di destra le cappelle, per me nobiliari, finivano e si innalzavano tre palazzoni in sequenza, nell’ultimo c’era mio padre.
Salivamo affannosamente quattro piani di scale di ferro, che si insinuavano come un serpente artritico tra mura di tombe. Imploravo di sostare per prendere fiato e solo le curve dell’ascesa erano salvifiche, poiché anche la madre ostinata rallentava. Finalmente giungevamo in vetta, sopra di noi solo un finestrone che filtrava una luce sporca. La fila sinistra era la nostra, una sequenza di esatte lastre marmoree venate di grigio conteneva l’anelato loculo.
Anna si metteva subito all’opera: slegava i fiori, estraeva i boccali funerari e li riempiva di acqua nuova, vi riponeva i boccioli stanchi, li allargava nello spazio angusto, lucidava la tomba con un panno, baciava con le dita la foto in bianco e nero di Giuseppe. Poi si sedeva su una panca di legno claudicante, di fronte a lui. A cosa pensava in quei momenti in cui il tempo non aveva più senso?
Mentre la liturgia degli atti di Anna si consustanziava, io cercavo riparo dalla noia aggirandomi per i loculi. Leggevo le iscrizioni sulle lapidi, le dediche dei sopravvissuti, le date di nascite e di morte, epigrafi numeriche inconfutabili. Alcune tombe giacevano tristi senza fiori, abbandonate dalla memoria, altre avevano nei boccali piante avvizzite come fiori custoditi in un diario che qualcuno ha dimenticato in un baule. Non tutti avevano Anna che ritornava. Per loro era finita davvero.
Feci una scoperta che disarticolò il mio malfermo senso logico. Mentre vagavo indolente tra le tombe, in attesa di una novità che rapisse il tempo e la noia, bighellonando sull’intero piano, leggendo tutte le epigrafi una a una, dall’alto in basso, decifrando i caratteri ampi e neri delle iscrizioni, ne colsi una che mi lasciò perplesso, basito, turbato. Lottai con quella scritta a lungo, quelle lettere definitive impegnarono la mia razionalità allo stremo:
PIETRO COLUCCI
PRIMO ANCHE QUI
3-9-1926 6-12-1968
E in alto a destra la foto sbiadita di un volto stempiato e serioso.
Primo anche qui. Che razza di primato era quello. Morire poteva avere i caratteri baldanzosi della vittoria? In che senso quell’omino grigio nell’ovale aveva primeggiato, come aveva potuto essere primo “anche là”, cosa significava “Primo anche qui”!
Intanto mamma chiamava, distogliendomi con la voce impaziente di chi attende. Mi sedetti accanto a lei non sapendo cosa fare del nostro silenzio. A cosa pensava lei durante quella contemplazione muta. Cosa dovevo fare io, immobile, silente, seduto di fronte alla tomba sempre uguale a se stessa? Decifrai per l’ennesima volta i caratteri nel nero cubitale:
ANNA
AL SUO INDIMENDICABILE PEPPINO
25-4- 1945 25-3-1969
E sotto, al centro, l’ovale nei ghirigori dorati di rame col faccione sorridente di lui.
“Mamma ma c’è scritto indimendicabile, con la D al posto della T, la seconda D è sbagliata, dovrebbe esserci una T”
“Questa frase l’ha scritto nonno Gennaro e l’ha affidata alle pompe funebri per inciderla sul marmo”
“Si, ma c’è un errore di grammatica”
“E ti pare che noi pensavamo alla grammatica con tuo padre morto!”
Era davvero arrabbiata e non capivo perché. Se per la mia insolenza verso la morte o per l’offesa all’ignoranza di suo padre. “Adesso andiamocene, che è inutile stare qui”, mi strattonò forte per un braccio quasi come se io facessi resistenza anziché scattare in piedi pronto a seguirla solerte. Perché mai non apprezzava la mia conoscenza della lingua italiana? Perché non mi lodava per aver svelato un’assurda inesattezza durata dieci anni nel silenzio colpevole di tutti?
Scendemmo le scale rapidamente, senza dirci altro, restava solo il suono metallico dell’attrito delle scarpe sui gradini.
Il vialone, i palazzoni, le persone coi fiori, le persone da sole, le persone dietro di noi, le persone verso di noi, andavano, ritornavano, meste, silenziose, assorte, assenti. RISORGEREMO in lontananza, in alto, il cancello enorme, la folla concentrata, le bancarelle, lo zibaldone di corpi e fiori, i taralli di Castellamare, eravamo fuori.
Respiravo.
Nelle visite successive confrontai tutte le date di nascita e di morte dei compagni coatti di mio padre: Pietro Colucci ero quello morto prima di tutti al quarto piano. Avevo svelato il tormentoso arcano, presupposi che fosse stato il PRIMO a essere sepolto là, mi immaginai tutti i loculi vuoti e il suo solo chiuso e murato di marmo. PRIMO ANCHE QUI, era il vanitoso e stupido omaggio dei parenti a un uomo che per loro aveva primeggiato in vita e poi in morte. Era arrivato primo anche dove tutti vorrebbero giungere per ultimi, in una gara che nessuno vorrebbe vincere.
Almeno credo sia andata così.