Primo appuntamento
Nell’unico bar della nostra cittadina, mio marito e io sediamo a un tavolino assolato, appiccicoso delle bibite di chi è passato prima. Siamo troppo emozionati per parlare, così ci sporgiamo avanti per i selfie, gli occhi semi-chiusi e le bocche spalancate, i denti come specchi. Che dirci? Non ci siamo mai incontrati in un bar o un locale o un ristorante — mai preso un gelato o fatto cena fuori. Dopo un anno di matrimonio, quattro insieme, non ero sicura che sarebbe mai accaduto. «È, tipo, un appuntamento?» chiedo. Sorride. «Siamo qui».
L’ho lasciato poco fa all’ospedale per le analisi sangue mensili, di routine, che monitorano gli effetti collaterali di tutte le medicine. Ma il laboratorio non ha ricevuto l’ultima richiesta del suo medico, e quindi, inaspettatamente libero, si è unito a me. Solo alcuni mesi fa, la distanza fino al bar — un isolato — sarebbe stata troppo lunga da percorrere.
Per buona parte della nostra relazione, ho avuto sogni modesti, prosaici: fare la spesa insieme, andare al cinema, guardarlo lavare i piatti. Sognavo l’ordinario, perché per noi non lo era. Sognavo di dire, se l’avessi mai visto al lavandino, “sta succedendo”. Ora accade abbastanza spesso da lasciarmi felicemente indifferente. Da permettermi sogni diversi.
Al bar, mio marito non ordina niente, ma porta il mio mokaccino al naso, e inala il vapore caldo del latte d’avena. Sogno di vederlo sorseggiare, un giorno, l’equivalente calorico di un pasto: sciropposo e vellutato, e tutto suo. «Gnam», dice, gli occhi chiusi. «Sento quasi il sapore».
Traduzione di Flavia di Mauro