Quando le belve arriveranno
Quando le belve arriveranno è il secondo romanzo di Alfredo Palomba, in uscita il 16 febbraio per la casa editrice Wojtek Edizioni nella collana di narrativa italiana Orso bruno, candidato al premio Strega 2022.
Presentiamo qui in anteprima le prime pagine del libro.
Abito in una stanza minuscola, al primo piano di un palazzo condominiale distante poche centinaia di metri dall’Eurospin, dalla scuola superiore in cui lavoro come docente, dalla merceria cinese dove ho cominciato ad andare fin dal primo giorno in questa cittadina: i luoghi che frequento e raggiungo a piedi. Nel tempo libero me ne sto qui a guardare la TV o YouTube o il soffitto. Imposto quasi sempre il video su muto, le immagini scorrono senza l’inutile orpello dei suoni. Grassi presentatori di giochi a premi in giacca e cravatta, concorrenti emozionati e sudati, il pubblico sugli spalti che applaude quando un segnale luminoso glielo suggerisce, direttori di telegiornale che danno la linea al corrispondente di guerra, l’annuncio silenziato di un bombardamento in una terra remota. I teleimbonitori parlano senza voce, i maghi predicono un futuro insonorizzato, i cartoni animati sono privi di quegli sciocchi suoni squillanti. In questo modo riesco a evocarli e, al contempo, a tenerli lontani. Ieri trasmettevano un servizio sul Krokodile, una droga meno costosa dell’eroina ricavata da una miscela di benzene, codeina e fosforo. Nel filmato senza audio i tossici mostravano a una telecamera nascosta le gambe e le braccia piene di ferite aperte, dispiegavano la carne viva, le schifose bolle d’acqua, le esplosioni cutanee, i tessuti diventati porosi tanto da poterci infilare un dito e creare un solco profondo, come se il corpo gli si fosse trasformato in un pezzo di plastilina o in una spugna. Sono rimasto a letto a guardare quelle devastazioni, poi mi sono addormentato. Quando è suonata la sveglia, alle sei e cinquanta, al loro posto c’erano cuochi amatoriali alle prese con la preparazione di una torta Sacher. Avevo già visto quell’episodio, perde il ciccione con gli occhialetti e se ne va via gridando. Si vede che impreca ma non ricordo cosa gli esca dalla bocca. L’inquadratura, poi, si allarga sulle facce soddisfatte di chi è rimasto in gara. Ho sentito uno scricchiolio e la stanza è rimpicciolita di qualche centimetro.
*
La scuola mi ha chiamato di sabato mattina, il mese scorso. Ero a casa da solo, mia madre doveva essere da una delle sue “amiche”. «Vado dalla mia amica», dice sempre, e io so che andrà a ubriacarsi con qualcuno e la rivedrò solo dopo ore o il giorno successivo, puzzolente di alcol, sfatta, delirante. Prima di trasferirmi, ero io a occuparmi della nonna-pianta per la maggior parte del tempo. La nonna-pianta è a letto da anni e ha perso la capacità di comunicare col resto del mondo. Ha badato a me e a mia madre finché ha potuto, senza parlare molto nemmeno quando sapeva farlo. Ora se ne sta distesa nella sua stanzetta, divorata dall’Alzheimer e da un cancro alla pelle che progredisce con lentezza e le ha lasciato un buco nero nel naso, guarda verso il punto in cui la parete si unisce al soffitto con un’espressione che ricorda i dipinti a olio delle sante in estasi mistica. Osserva giorno dopo giorno quella congiuntura che non è parete e non è soffitto, proprio come lei, non ancora morta ma nemmeno più viva. Ogni tanto, quando siamo soli in casa, parlo con la nonna-pianta. Non sono uno che ha molte cose da dire agli altri. La nonna-pianta assorbe le mie parole come un terreno poroso fa con l’acqua, senza manipolarle con la ragione o confrontarle con le proprie opinioni. Le sue opinioni sono evaporate, non risiedono più nel corpo rinsecchito e perennemente ficcato sotto un lenzuolo o una coperta. C’è solo funzionalità organica, nella nonna-pianta. Risveglio, contemplazione inattiva, fisiologia pura. Magari brandelli di ricordi, immagini destoricizzate, defunzionalizzate, sconnesse. Sogni, forse, di eventi passati, suggeriti dalla degenerazione neurale. Combustione di ossigeno che incontra carbonio e idrogeno. Regolazione automatica della temperatura interna. Espulsione automatica degli scarti. Mi occupavo io di cambiarla e alleviarne le piaghe con la crema. Di sera chiude gli occhi, al mattino li riapre ed è tutto. Il cuore pompa ancora sangue, i reni filtrano e sintetizzano ormoni e proteine, i polmoni immettono ossigeno ed espellono anidride carbonica: a una forma di vita del genere ho sentito di poter parlare. La nonna-pianta riceveva le parole senza dolore. Raccontavo dei miei sogni ai suoi occhi macchiati, sepolti in fondo alla cataratta spessa che li ha scoloriti, ingrigendoli. Raccontavo di mia madre, sua figlia, al tumore che le mangia il naso, alla pelle smorta, ai capelli radi, ancora tendenti ad arricciarsi. Le cellule cancerose continuano l’opera di conversione e avanzamento. Era come se non ci fossi. Il suo organismo spigoloso è un evento chiuso, senza conseguenze nemmeno per lei. Le parlavo della mamma: se ho fatto domanda in questa provincia sperduta del Nord, se ho abbandonato la nonna-pianta è stato solo per andarmene il più lontano possibile da quella casa e dalla donna che mi ha messo al mondo. Non mi è mai interessato lavorare, non ho interesse per i soldi. A casa ho sempre vissuto con pochissimo, fin da quando ricordo. Volevo andarmene, stare solo, non vederla più: da indifferente che mi era stata per molti anni, la sua presenza aveva cominciato a disgustarmi. Ogni volta che incontravo mia madre coi capelli spettinati, la faccia gialla, ogni volta che la vedevo barcollare e mi investiva con una frase senza senso e l’alito pesante, provavo un senso di nausea tanto forte che persino lei doveva accorgersi della mia espressione. Abbassava la testa, tirava dritto verso la sua camera da letto. Ho compilato il modulo per essere inserito nelle graduatorie scolastiche all’inizio dell’estate scorsa, insieme a una sindacalista che mi ha spillato trenta euro. Ci sono andato perché non volevo sbagliare e rendere nulla la domanda. Non potevo rischiare di non essere contattato per un incarico, l’idea di restare ancora a casa era diventata intollerabile. Non ero mai stato da una sindacalista. Mi ha ricevuto su appuntamento in una stanza buia, quasi vuota, puzzolente di muffa. Mi sono seduto su una sedia di plastica bianca e ho poggiato la cartellina coi fogli sulla scrivania. Si è alzata della polvere che ho finto di non notare. Indossava un vestito di cotone con stampigliati sopra dei fiori rossi, dalle spalline corte fuoriuscivano braccia rugose da cui la pelle pareva colare giù, come un fluido viscoso. Alcuni radi peli grigi le spuntavano dalle ascelle. Ha detto che prima di iniziare dovevo iscrivermi al suo sindacato e che la quota era di trenta euro. Le ho passato due banconote che ha preso allungando verso di me il braccio flaccido: lo scambio mi ha fatto pensare alla Creazione di Adamo di Michelangelo. Ha riposto i soldi in un cassetto e tirato fuori il modulo di iscrizione, senza dire una parola. L’ho riempito coi miei dati e firmato e lei lo ha risucchiato, ficcandolo poi nello stesso cassetto. Finalmente, abbiamo compilato la domanda. Sono andato alle poste e ho spedito il plico a una scuola in questa provincia. Qualche giorno dopo, ho completato la procedura tramite un altro modulo su internet, in cui sceglievo una ventina di istituti che avrebbero potuto chiamarmi, alla bisogna. Di tanto in tanto, mi arrivano mail informative da parte del sindacato, le cestino senza aprirle.
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Quando, al telefono, la segretaria ha detto che mi sarei occupato di un solo caso, non ho capito subito cosa intendesse e non ho risposto.
«La chiamata è per il Sostegno», ha specificato, «forse ho tralasciato di dirglielo. Un caso… grave. Ma sono diciotto ore, è un tempo pieno, vede».
«Capisco».
«Se ha bisogno di pensarci un attimo, prima di passare a un altro candidato, tra dieci minuti posso richiamare…». Ho detto che accettavo, e dal tono del suo «Molto bene» mi è parsa sollevata: significava che, per quel posto, il giro di telefonate era terminato e il docente individuato. Mi ha dato appuntamento per il successivo lunedì mattina e si è affrettata a riattaccare. Sono laureato in Lettere, non ho abilitazioni particolari, ma per loro non fa differenza. Gli insegnanti di Sostegno sono pochi, la domanda è maggiore dell’offerta e le scuole sono costrette a chiamare secondo un sistema di graduatorie incrociate, pescando tra i candidati per le altre discipline. È così che trattano i loro scarti, prendendo uno qualunque, uno come me. I pochi soldi di cui disponevo prima di entrare a scuola li racimolavo con saltuarie ripetizioni private. I genitori degli allievi non mi pagavano quasi mai subito, lezione per lezione, né io li inseguivo per il compenso. Lasciavo fare a loro, non prendevo iniziative, non chiedevo. Subito dopo la telefonata con la Segreteria ho dovuto fare un conto del mio credito e ho telefonato a tutti, dicendo che sarei andato via e sarei passato in giornata per riscuotere. Entro sera avevo recuperato trecentocinquanta euro, che insieme ai circa quattrocento rimasti dopo aver prenotato il treno per il viaggio del giorno dopo, costituivano il patrimonio per sopravvivere fino al primo stipendio. Ho prenotato anche una topaia singola nel B&B più economico in un raggio di due chilometri dalla scuola, per non avere problemi a raggiungere il lavoro a piedi. Mi muovo a piedi ogni volta che posso. Ho la sensazione di possedere i luoghi che riesco a raggiungere con le gambe, mi sento in comunione coi miei antenati, col primate che sono stato.
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Verso ora di pranzo, mia madre è tornata a casa e mi ha visto preparare la valigia. Ha emesso uno strano verso, a metà tra una domanda e lo sbuffo che avrebbe fatto se le avessi dato un pugno nello stomaco. Mi ha chiesto dove andassi e io le ho risposto. Mi ha chiesto quando sarei tornato e le ho detto che non lo sapevo ancora. Mi ha chiesto come avrebbe fatto da sola, chi si sarebbe occupato della nonna-pianta. Non le ho risposto. Barcollando, ancora ubriaca, ha infilato in una busta tutto lo scatolame che è riuscita a raccattare e mi ha lasciato le scorte sul letto, perché le sistemassi in valigia. Mi ha di nuovo chiesto con gli occhi semichiusi quando sarei passato a trovarle, lei e la nonna-pianta, quanti soldi avevo, perché non sapeva nulla della domanda, perché non gliel’avevo detto. Le ho restituito una serie di risposte meccaniche. Non so quando verrò a trovarti, mamma, dipende dai treni, dal giorno libero che mi assegneranno. Presto. Ho abbastanza soldi, mamma, lo sai che li conservo e qui non spendo quasi niente, e poi le lezioni private, lo sai, mamma. Non volevo che ci rimanessi male se non mi avessero chiamato, mamma. Il sottinteso era: mi disgusti, mamma, mi disgusti, mi disgusti, mamma. Non voglio vederti mai più, ecco quando verrò a trovarti, mamma.