Quarta lettera filosofica: i Grundrisse di Karl Marx

Nell’arte come nella comunicazione si riflette spesso non solo il disagio o comunque la proiezione di uno stato d’animo quale: prefigurazione di un futuro, intuizione di un salto tra realtà e pensiero, confini e persino sintassi logaritmiche nuove. La sospensione temporale, ciò che definiamo istante del tempo, è una sua prerogativa per cui si potrebbe dire con Lacan che ciò che parla non è solo o soltanto il soggetto/oggetto ma la relazione, il relazionarsi che fa costantemente il mondo oggettivo con quello soggettivo, fino a crearsi l’intercapedine esperienziale della sua coscienza (coscienza di relazione di cosa e chi). Dunque l’arte e l’estetica (la rappresentazione estetica, ciò che parla non parlando ma solo rappresentandosi quale forma) introducono all’umano, alla resistenza dell’umano contro ciò che non lo è proprio. K. Marx che non si occupò espressamente di arte, trovò il tempo di dire qualcosa dell’umano dell’arte in un appunto lapidario – una paginetta e mezzo – al termine del primo quaderno dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Bisogna chiedersi come mai in uno studio-bozza preparatorio al Capitale (opera di difficilissimo accesso mentale ed epistemologico, sebbene denso di una struttura semantica di eccezionale rigore filosofico e formale), ci fosse questa pausa, questa riflessione enorme, di geniale intuizione dello spirito di un’epoca – l’arte greca e la società moderna -. Mi sono immaginato che Karl si fosse preso una pausa bevendo una tazza di caffè e che gli fosse balzato in mente un vecchio paradosso: lo stile e la forma sono nell’arte greca l’accesso al divino e alla bellezza. Una dismisura che lui sottolinea così: “È possibile la concezione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca, e perciò dell’arte greca, con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e il telegrafo?”
È possibile dunque la relazione che l’umano stabilisce col reale coscienziale in un mondo, quello capitalistico, ove la Macchina, l’universo macchinico domina l’uomo e la natura in un rapporto feticistico come se quel mondo, il mondo della riproduzione di denaro nella forma di capitale fosse l’unico mondo possibile? Ebbene l’arte in qualche modo dichiara non finito, non terminato, non sussunto questo rapporto. Rappresenta l’infanzia astuta dell’uomo che rassicura l’uomo stesso della sua possibile rivincita sul Capitale e il suo universo macchinico, alienato, capovolto. Rassicura l’uomo moderno che la soluzione non compromissoria, è lo stadio evoluto di questa contraddizione insanabile, la comunicazione sociale e dunque anche artistica al suo massimo grado di coscienza universale, lo spazio a quattro dimensioni, il suo essere parte dell’Intelletto generale.
Questa considerazione venne splendidamente sviluppata da Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel senso che la serialità delle cose prodotte come merci nello scambio reale (la cosa e il suo feticismo, l’aspetto quasi totemico di una cosa) sono in realtà la dissoluzione stessa dell’oggetto, non solo nella fruizione dell’arte ma anche come azzeramento del gusto di una cosa. E allora la costruzione per segni delle cose, cosa inaugura, solo l’aspetto alienato di tutto il mondo mercantile, o anche una metafisica del reale che tende a fare del segno il segno grafico delle cose, gli oggetti del quotidiano umano? In qualche modo si ma nel senso che quell’immaginario reale (l’aura il fascino di una cosa) viene spinto ai margini del mondo reale dell’uomo. Ma è l’Occidente che crea questa desertificazione del senso. In Giappone avviene, come anche nel Rinascimento italiano e fiammingo, una strana costruzione del reale, la sua semplificazione ma nella amplificazione del segno come senso e significato, una ipercostruzione della bellezza come ‘mentalità’: il segno come origine del senso di una cosa, la sua forma Iki, bella esteticamente parlando. Non dunque l’immaginazione idealistica ma la costruzione dell’evento e dell’annuncio. In questo gli angeli e i profeti, la ricostruzione della storia evangelica in arte, ricalca una narrazione: il primo linguaggio filmico, per immagini, cioè non intuitivo, scrive questa esaltazione della narrazione come nella Bibbia dei poveri o negli affreschi giotteschi. Questo risponde alla domanda di Karl Marx? Si e no. Nel senso che la fulminea retroversione del tempo non riguarda solo l’infanzia del mondo greco, riguarda in realtà il suo tramonto e l’avvenire di un mondo nuovo.
E il mondo della natura e della sua significanza? Bisogna fare un passo indietro a dove l’enigma comparso a Marx tra le sue dita mentre annotava la conoscenza di un evento particolare, il crescere a dismisura delle forze di produzione collettiva, viene disvelato da una scienza, l’antropologia non dell’umano ma del non umano tecnicamente costruito, gli oggetti. La mente natura universale da una parte si riappropria della sua originale vocazione, essere l’umano dell’umano mentre da un’altra parte invece le cose, gli oggetti, i valori d’uso, abitano di quel mondo costruito il quotidiano. È l’apparenza delle cose come in una perenne Pop/art.