Lettere filosofiche di Ralph Salomon Rauchenberg

Quinta lettera filosofica: Marx, Kafka e Walter Benjamin. Il profetismo ebraico e la storia

Fare ‘filosofia’ nel nostro tempo significa consentire due cose, non permettere la manipolazione del pensiero e permettere al pensiero stesso di dispiegare tutta la sua forza sovversiva. Come lo fu per Aristotele, per Spinoza, per Leibniz, Vico, Marx, Derrida, Levinas. Spesso si tratta di scaricare, in barba alla ragionevolezza quietista, tutta la forza del pensiero e del pensiero collettivo sul corpo corrotto del potere politico per evitare la catastrofe del genere, la sua nichilazione. Recentemente è ritornato di moda un dibattito su ciò che sinteticamente viene chiamato antisemitismo semita, il sentimento del contrario in autori di cultura ebraica che sentono in qualche modo il disagio di essere ebrei nella contemporaneità dando una forma apparentemente atea alla loro argomentazione. In realtà in essi come del resto nella storia del pensiero ebraico, questo sentimento entra nello specifico di un antico dilemma storico ed autobiografico: cosa significa essere ebreo. Nel doppio senso di essere ebrei nel pensiero storico dell’ebraismo e nel senso storico di cosa sia il pensiero storico degli ebrei. Di come ‘stia’ un ebreo nel mondo. Gli intellettuali in particolare vivono la contraddizione come fuoco nella cenere. Da Spinoza in poi un ragionare moderno sulla storicità e sul mondo rischiò di diventare ‘eretico’. Ma fin lì. Ben presto libri eretici, non convenzionalmente ortodossi come il Qohelet, il libro di Giobbe, Il cantico dei Cantici il libro di Ester, posero all’ebraismo il dilemma se la materialità del mondo e del desiderio, fosse appunto desiderabile o meno. Se fosse esattamente il desiderio del divino nell’uomo, e la volontà del divino per l’uomo. Un vedere le cose nel doppio senso della sua Anschauung e della sua Weltanschauung. Del basso e dell’alto, della sua differenza e del suo doppio, della sua duplicità. Galileiana come soluzione, per nulla scontata. E per giunta nella storia umana. Autori come Marx, Freud, lo stesso Kafka sembravano assolutamente non ortodossi. Come Italo Svevo o lo stesso Umberto Saba e Hanna Arendt.
Forse che l’assimilazione all’Occidente comportava questo rischio, di non essere abbastanza ortodossi e perché poi non poteva essere il contrario? Derrida e Levinas, massimi pensatori europei del Novecento posero correttamente la questione ad una questione di metodo ulteriore, dell’’Interpretazione’, cosa che si legava inaspettatamente più a Nietzsche che ad Heidegger, che ebbe con l’ebraismo una condotta sempre ambigua. Ma il paradosso è l’essenza stessa dell’ebraismo, non il suo contrario: la logicità epistemologicamente corretta, non garantisce, paradossalmente, la comprensione del mondo, delle sue leggi, del carattere asistematico dei sistemi. In questo Marx e Kafka furono diversamente da Walter Benjamin, intelligentissimi frequentatori. Il comunismo ‘ebraico’ di Marx fu in realtà la più autentica interpretazione del ‘Giusto’, in senso proprio e in senso sociale. Se il Cristo non fu profeta in patria del socialismo utopistico, Marx fu profeta nel mondo del socialismo come superamento del dilemma storico, o il socialismo o la fine di tutte le classi nella catastrofe generale. Il suo profetismo sta tutto qui, nel suo essere Apocalisse del mondo, nel suo capovolgimento radicale. E per evitarne la catastrofe, fu il ‘reinventore’ del metodo moderno di leggere la storia. La storia è storia della lotta delle classi, necessaria al cambiamento generale della storia. Prese quella fanfaronata della dialettica hegeliana e le diede la sua giusta forma. La qualità delle forme, il loro essere radicali nella trasformazione dell’ingiusto nel giusto assertivo di una liberazione, era questa la novità: il cambiamento di forma dello stato, del movimento reale delle cose – era nella realtà – il suo futuro; ciò che nella storia bolliva come cenere sotto il fuoco, il suo vero destino. Nel marzo 1844 apparve l’unico numero della rivista che Marx, allora deciso a prendere in teoria ed in pratica la massima distanza dalla Germania, aveva fondato a Parigi con Arnold Ruge. Questa pubblicazione comprendeva tre contributi firmati da Marx: uno scambio di lettere con Arnold Ruge, l’articolo su La questione Ebraica (in risposta ad un articolo pubblicato sotto lo stesso titolo da Bruno Bauer) e un’Introduzione alla critica della filosofia del diritto pubblico, redatta a partire del commentario dei passi della terza parte dei Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel consacrati allo Stato costituzionale, commentario che Marx – che aveva senza dubbio intrapreso questo lavoro nel 1842 – aveva abbozzato a Kreuznach nel 1843, ma lasciato incompiuto. Scrive infine a Ruge sul senso del lavoro maieutico della storia e dell’uomo: “Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico”. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro.
Cosi ‘freudiano’ nell’impostazione che si pose a Kafka e a Walter Benjamin più tardi e da ottiche diverse, la stratosferica intuizione che il negativo, il male del mondo, era una sua stessa necessità, per il suo stesso superamento. Un po’ barbaro come concetto ma apocalittico e rivelatore del destino del mondo e dell’uomo. Il comunismo ‘ebraico’ e profetico di Karl Marx fu essenzialmente questo, una questione di metodo, la sua apocalittica dimensione. Come del resto lo fu più tardi per Einstein. Sconvolgente come intuizione ma assolutamente geniale.