lucio leone la ferita

Il taglio che ci portiamo dentro: La ferita di Lucio Leone

La ferita di Lucio Leone di recente uscita per i tipi di Alessandro Polidoro editore è un libro suggestivo e difficilmente classificabile nei generi canonici. Il romanzo breve o racconto lungo (109 pagine) fluttua tra noir, con stille di horror, e psicanalisi, tra fantastico e comte philosophique tessendo una trama densa che lascia ai bordi echi di non detto. Il lettore difatti resta, alla conclusione del viaggio letterario, con frantumi molteplici di interrogativi che lo chiamano in causa in prima persona. La finzione narrativa trascende i bordi delle pagine per addensarsi in grumi esistenziali che continuano a incalzare dopo la conclusione. La ferita è aperta e non è semplice richiuderla.
Il protagonista dell’opera è un singolare personaggio, senza nome e apparentemente senza storia, che vive in una camera bianca nella ripetuta attesa di una telefonata di lavoro: ci sono dei cadaveri suicidi che richiedono il suo intervento professionale. Egli, attraverso un taglio sullo sterno, li inciderà per intrufolarsi “fisicamente” dentro di loro per scongiurare il gesto estremo, per modificarne il passato e quindi il destino di morte. Dentro ai morti ci sono città misteriose e desolate, palazzi di vetro giganteschi, scale che salgono, montagne deserte, freddo e nebbia, libri in cenere. Dentro ai morti, dentro di noi, c’è soprattutto il dolore. La ferita a cui allude il titolo difatti è sia esterna (l’incisione per aprire un varco dentro al corpo defunto), sia, soprattutto, interna, celata negli abissi dell’animo, pulsante e distruttiva. Il protagonista, a tratti, appare come la metafora di uno psicanalista: egli scende nell’anima dei suoi “clienti” per coglierne le sofferenze intime che ne hanno determinato il presente tragico strozzando ogni volontà di futuro. I paesaggi fantasmatici in cui “l’incisore-guaritore” si aggira assumono i connotati del simbolo e del rimando analitico. Il viaggio negli abissi delle coscienze disvela ombre inquietanti, nodi irrisolti, angosce irriducibili, fondi oscuri e insanabili dell’esistenza, rispetto ai quali lo scacco talvolta è inevitabile. Le donne e gli uomini portano dentro un albero, una mala pianta, che ramifica e cresce a dismisura nutrendosi di un humus di dolore ancestrale. La pianta de La ferita, che il protagonista si porterà in casa e di cui subirà l’influsso nefasto, è l’albero della vita ribaltato, lo slancio vitale viene sovvertito in pulsione di morte, di auto annientamento. Il male di vivere è soverchiante, talmente gravoso da sopportare che prevale un cupio dissolvi, un anelito salvifico e nichilistico a sparire, dissolversi, morire.
La ferita è anche un romanzo sul tempo. Il tempo malato da redimere è il passato, lo squarcio che avvelena la vita si è aperto in un tempo precedente di cui potremmo non avere lucida consapevolezza ma la cui ombra dolente si allunga sull’ora, compromettendo le possibilità di una liberazione futura. Ciò che siamo stati castra ciò che vorremmo essere. Il divenire declinato da Lucio Leone è un tempo circolare da cui non sembra esserci via di fuga, ciò che è accaduto “eternamente ritorna” per chiudere un cerchio che gira su sé stesso. Siamo prigionieri di una storia già avvenuta, pregiudicata dall’inizio. L’origine è la fine e la fine è l’origine. Vi è un falso movimento, l’avanzamento è solo un’illusione, un miraggio; di fatto si può solo ritornare dove si era sempre stati. Nel romanzo questa circolarità è dipanata anche stilisticamente: la storia difatti è un labirinto a forma di circonferenza e il protagonista scopre che il viaggio che credeva di aver compiuto nella realtà è stato svolto dentro sé stesso; le peregrinazioni dentro alle vite/morti degli altri sono solo proiezioni del proprio itinerario interiore. Il finale del romanzo è spiazzante e iniziatico e ci svela che l’origine della narrazione era nella sua conclusione. Il libro potrebbe essere letto a ritroso e svelerebbe un’altra storia. Il racconto procede all’indietro senza che il lettore lo sappia, poiché per Leone è nell’inizio la causa prima e determinante. Il protagonista cerca di sanare la ferita primordiale con una nuova e diversa narrazione, così come la letteratura cerca le parole per poter dire ancora la vita e riscattarla. Il viaggio è sempre dentro di sé, alla ricerca della genesi del male e delle parole per esorcizzarlo.