Requiescat in pace

A volte sogno un bagno di polvere.
Abbandonarsi alla terra. Al ventre freddo di mamma Gea. La nostra culla d’humus. Il terrore minerale dell’argilla e il silenzio morbido del tufo. Sovente il fango mi sembra casa. In effetti lo è, io vengo da lì.
Se chiudo gli occhi avverto un battito nel silenzio ipogeo. Il carbone dei legni antichi si rianima, i fiumi s’incontrano in varchi sotterranei, di là dei nostri sguardi.
La terra parla poco.
Se non in singulti e sussulti.
Respira nelle gallerie dei formicai. Riposa, nei letti delle pupe di cicala.
Sovverte l’ovvietà del cielo.
In quest’alcova la pace è salva. In quest’ampolla si conserva ogni tempo ch’è stato ed ogni frutto che viene a donarsi al mondo.
Mi perdo nella quantità di storie che conserva la terra. Invidio Proserpina che ebbe modo di vedere gli Inferi, la talpa e i suoi cunicoli, la morte, che accoglie tutti nella polvere del suolo.
Ogni realtà è protetta da secoli di sedimenti. Il vulcano erutta, l’alluvione disperde. La terra si stratifica su se stessa, allunga il vino torbido del tempo.
Diluisce il bene e il male.
Mamma terra custodisce le memorie di epoche in cui la pietra nera di Cibele rovesciava le sorti di una battaglia. Quando le sacerdotesse di Vesta si ornavano il capo di trecce.
Penso spesso a una vestale murata viva, accarezzo il suo teschio. Non ve n’è traccia, ma so che c’è. Aveva forse un volto bianco lunare, capelli corvini, una perla tra i carboni. Occhi fermi come punti, neri splendenti, prima di diventare ombre della sua colpa.
Il fuoco sacro non deve mai spegnersi.
Pena, la morte.
Nevia è ancora lì, le sue ossa conservate come una fiala di veleno in uno scrigno, logora dal tempo ma integra nell’efferatezza della sua fine. Giace equidistante tra due linee della metropolitana. Il suo sepolcro non verrà mai scoperchiato e nessuno avrà mai modo di studiare il vasetto di miele che le hanno lasciato, misericordiosi, o il lumino a ricordarle il principio della fine.
Il suo sangue era troppo prezioso per essere versato sotto a un cielo di stelle.
Chissà cosa ti fece addormentare quella sera di veglia. Vedo gli astri luminosi di Orione specchiarsi per l’ultima volta sulle tue iridi. Chissà se una tua compagna, impietosita, cercò la tua mano sotto le vesti bianche per regalarti il sonno soffice della mandragola o la rapida fine della belladonna.
La terra non ti è ancora crollata addosso, Nevia, eppure con te non è mai stata lieve.
Sopra di te c’è uno stabile, con al pianterreno un ristorante gestito da egiziani. Il loro piatto di punta la carbonara, di cui un feticcio ritrae le sembianze all’ingresso. Prima lì c’era una sartoria. Prima ancora, una piccola galleria. Uno studio notarile spicca tra gli appartamenti vecchi e i due B&B sullo stesso piano, a dare un tono all’ambiente logoro. Il pavimento tuona ad ogni passo. Forse dalla tua alcova senti il ticchettio delle unghie del Labrador dei signori al terzo piano sul parquet. I clacson dei taxi bianchi con nomi di città.
Ma no, la terra è un utero buono. Ti ha fatto dono di non sentire nulla di ciò che accade sotto il cielo e sopra l’asfalto.
Di non sapere che quel fuoco per cui sei morta è stato spento per sempre.