Room 8

Il fatto che lei sia nuda mentre tu sei vestito non vuol dire niente. Qualcosa di più dichiara la mancanza di tre proiettili nel caricatore della tua pistola. Hai controllato prima di rimetterla nella fondina. Sono proprio tre. Nonostante tu non sappia contro chi li hai usati. Le fettucce di cuoio della fondina serrano le tue spalle sopra la camicia bianca. Le bretelle del reggiseno dovevano stringere anche le sue, di spalle. Il segno rosso sarebbe appena visibile, se non fosse per la pelle particolarmente bianca su cui è impresso; il contrasto di quella epidermide con il resto del corpo abbronzato disegna il seno e il pube, il sedere: sono davvero pallidissimi. Il seno è di media grandezza, la peluria sul monte di venere è più scura dei suoi tanti capelli scarmigliati, non è molto folta ma è più scura. Lei è bionda. Il rossore traspare anche nelle ombre delle veneziane che rigano la sua figura snella. Che sia sudata, anche questo non dice nulla. Le macchie di sudore sulla tua camicia mostrano soltanto il caldo che avvolge la stanza. Le strisce del sole alto sul letto e sul pavimento. La stanza è la numero 8 e ha il condizionatore spento – oppure è rotto. Apri il frigobar e ti accorgi che la corrente elettrica è staccata. Ci sono rimaste alcune bottigliette di Coca-Cola, whisky, rum e gin, Martini, c’è anche del succo di frutta all’arancia. Ci si potrebbe fare un cocktail. Ma senza ghiaccio non è il caso. E poi probabilmente il succo d’arancia è scaduto. Non ti va di leggere la data sulla confezione. Ti accorgi dello stato di abbandono di questa camera soprattutto dalle piante dei suoi piedi sporche della polvere sul pavimento. Ha camminato scalza; si tocca un piede, è seduta sopra le lenzuola e cerca di pulirsi il piede con la mano. Un’altra pistola è sul comodino vicino al letto, polvere anche sulla superficie del piccolo mobile a cinque cassetti, ma non sull’arma. Non hai verificato lo stato del suo caricatore. Sai che c’è intimità tra voi due solo perché lei se ne sta così nuda e rilassata davanti a te. Prima ha fatto la pipì e non ha chiuso la porta del bagno. Avrebbe voluto lavarsi, ma non c’era neanche l’acqua del rubinetto. Non sai chi sia quella donna. Non sai quando siete arrivati all’hotel né da dove provenite. Il letto è ancora in ordine. I suoi abiti e la biancheria sono mischiati ai tuoi in un’unica valigia aperta dentro l’armadio dove la tua giacca è appesa a una stampella. Anche quei capi d’abbigliamento confusi tra di loro parlano della vostra confidenza. Lo specchio dell’anta dell’armadio rimanda l’immagine di una coppia. Ti sembra di non riconoscere neanche te stesso. La semiautomatica ti dice che hai a che fare con il crimine; però non hai idea se sei dalla parte giusta o in quella sbagliata della legge. Non hai nessun distintivo. Ma potrebbe essere nella giacca. E la rivoltella sul comodino? Forse anche lei fa il tuo stesso lavoro. Questo da solo non giustifica che lei ora si passi due dita tra le labbra vaginali e poi le annusi. Fa una smorfia di disgusto e ti sorride. C’è la possibilità che sia tua moglie, ti guardi la mano, nessuna fede (ma anche questo non significa niente), la tua amante, o comunque la tua donna; una prostituta no: non sei il tipo che paga per certe cose. Non ricordi chi sei ma hai la certezza che non sei uno che paga. Si avvicina carponi a te, adesso seduto sul bordo del letto, portandosi dietro la pistola. Poggia il seno, morbido e pesante, sulla tua schiena bagnando ancora di più la camicia, senti i capezzoli inturgidirsi, mentre adagia la testa sulla tua spalla e stringe le braccia intorno alla tua vita. Ricordate la copertina di PinUps di David Bowie, solo senza trucco sui volti. Il tuo sguardo fisso e quasi allarmato come quello di Bowie, languidi e sereni gli occhi chiari di lei, tipo lo sguardo di Twiggy. Senti la pistola e la sua mano lasciate cadere debolmente ma con attenzione sul tuo sesso che comincia a irrigidirsi sotto i calzoni. L’abbraccio è rassicurante, malgrado quell’arma, perché vi riconosci qualcosa di familiare: soltanto adesso lei non è una sconosciuta. Eppure ti sembra di non volere questa tranquillità. L’immagine che ti appare è quella di una donna poggiata con un lato della fronte sul tuo petto e le braccia che ti cingono i fianchi; siete su un divano e la stanza è illuminata dal riflesso di un televisore acceso, ti pare su un gioco a premi o una sit-com. Senti le risate registrate e gli applausi. L’apparecchio è di un modello recente. Schermo panoramico. Quello in questa stanza è vecchio di almeno dieci anni e piccolo. Con un’antenna orientabile. Il telecomando al suo fianco, sul ripiano del tavolinetto sopra a un libro dimenticato da chissà chi, è logoro, alcuni tasti sono sbiaditi, è sbiadita anche la copertina del romanzo, è un libro di fantascienza intitolato L’uomo che cadde sulla Terra, l’autore è Walter Tevis. Forse lo hai letto, forse vi avevano tratto anche un film, ma le sequenze che ti vengono in mente per alcuni istanti sono più sbiadite della cover del volume in edizione economica. Lei dice, lanciando un’occhiata a quel libro, che forse anche uno di voi due è un extraterrestre, e si chiede chi, forse entrambi, soltanto che non avete memoria da quale pianeta siete caduti. Se è per questo, ti riesce difficile riconoscere anche quello su cui state vagando adesso. «Se funzionasse, sì il televisore», dice, «che film vorresti che trasmettesse?». Tu le rispondi che non te ne viene in mente nessuno. Uno qualsiasi, aggiungi. Non ricordi neanche un film. «Io, Flashdance», dice lei senza pensarci. «La scena in cui Alex, Jennifer Beals, si allena su Maniac di Michael Sembello era così vitale: sono già sudata come lei, ho il sedere tonico e i piedi robusti da ballerina». Lei è in pigiama, ai piedi ha dei calzini di lana grigi. L’aria della stanza è viziata. Poi c’è l’aroma del tè alla cannella che le hai preparato in cucina. In cucina, gli avanzi della cena e i piatti nel lavello coperti di acqua e detersivo al limone sono colorati della luce gialla e triste del lampadario sopra al tavolo. Un lampadario a una sola lampadina. L’immagine svanisce quando lei si porta al tuo fianco, allora senti forte il suo sudore e capisci che la donna in pigiama era un’altra donna, priva di odore, se non quello dell’appartamento e dell’alito al tè e cannella. Anche questo odore umido e appiccicoso ti è familiare, ma non ti rimanda a una sensazione di quiete, all’opposto ti mette una certa inquietudine, che non hai intenzione di scacciare via, non sai perché ma non vuoi allontanarla, vuoi questo senso di minaccia, di pericolo, di libertà, magari togliendo il suo corpo dal tuo, spalla su spalla, la sua coscia nuda aderisce alla tua nei pantaloni di cotone blu come la giacca, questa sensazione potrebbe sparire. L’immagine ora è quella del suo corpo sempre nudo e con, in alcuni punti, le sagome dei fiori ricamati sulle tende di cotone leggero poste davanti alle finestre che affacciano sul vicolo di una città sconosciuta. I disegni cambiano di forma a seconda del vento. Il corpo è più che altro una silhouette appena rischiarata dalla luce della luna – la luna è spezzata ma, per fortuna, o per disgrazia, la sezione rimasta è quella per gli amanti. Quando ti reclini con il busto sulle sue cosce, senti l’odore del suo sesso che comincia a eccitarsi, il sudore si è mischiato a residui di urina tra le labbra vaginali, labbra carnose, e i peli. «Me la sono fatta un po’ sotto», ti aveva detto. Ora l’immagine è quella di lei che lascia l’appartamento di aria viziata e cannella e aggiunge: «Per la paura e l’eccitazione». Ti dà un bacio sulla bocca, la bocca è secca, avrebbe bisogno di bere, e sale in macchina. Butta la pistola sul sedile di dietro. La tua l’hai rimessa nella fondina. Partite. Il chiarore dei fari dell’automobile si dirige verso un hotel. Il riflesso della luna è ancora sul suo corpo, sui suoi piedi nudi portati sopra il sedile dopo essersi sfilata le scarpe. Solleva un piede sul letto e apre di più le gambe e tu ti lasci andare in ginocchio tra le sue cosce, come in una sensuale preghiera, afferri il suo piede alzato e adagi la testa sull’altra coscia, vicino al pube, i peli sfiorano le tue labbra, avvicini di più la bocca al suo basso ventre. Lei ti accarezza i capelli e restate così a lungo. Almeno fino a quando il colore della camera vira dal bianco-giallo all’arancio, sempre rigato di scuro. Lei fa per alzarsi, posa il revolver a terra, e tu ti sposti mettendoti seduto con la schiena sul margine del letto. Potresti controllare il caricatore di quell’arma, ma lasci perdere. Che importa, ormai. Tira su le persiane e apre la finestra. Le strisce si dissolvono man mano che le veneziane si sollevano. Il caldo del deserto non si è ancora mitigato, ma il vento che ha preso a soffiare dà un po’ di sollievo ai vostri corpi placati dal piacere che ancora doveva terminare e dalla stanchezza, dallo stordimento, anche se non riesce ad asciugare il vostro sudore né il suo sesso. «Guarda», ti dice, invitandoti, con un gesto della mano, a seguirla alla finestra. L’insegna dell’hotel è rotta ed è caduta nel parcheggio, le sue lettere sono celate dalla sabbia del deserto oltre l’autostrada, a parte una o e igh. Ti sembra di leggere Moonlight, ma è solo una tua ricostruzione dettata forse da un altro ricordo confuso o inesistente. Seppellito in una terra desolata di memorie senza alcuna croce a segnalarne il luogo. Nel parcheggio non c’è solo la vostra automobile: ne contate altre quattro. «L’hotel degli amori perduti», ti dice lei. Sorride. «Degli amanti in fuga». Quindi ti indica un punto lontano dove c’è un grande schermo cinematografico e infinite file di sedie, non riuscite a vedere dove finiscano. Anche se non è ancora buio, sullo schermo appaiono le prime immagini. Vi è impossibile sentire l’audio, ma pensate che quelle sequenze frenetiche devono essere i trailer delle prossime programmazioni del cinema fantasma. Oppure pubblicità di qualche prodotto per il divertimento o di golosità dolci o salate.
«Siamo ancora in tempo per il primo spettacolo», ti fa lei.
«Mettiti il vestito migliore che hai portato», le dici tu.