Sarà il motorino di avviamento
C’è un cielo grigio e l’aria di quando pensi sia passato il peggio e invece ancora non hai visto niente. Siamo in macchina da un paio d’ore, a metà del viaggio, adesso dobbiamo solo tornare a casa. Ne abbiamo bisogno.
Mia madre è alla guida con una faccia concentratissima, mi ha appena dato il cambio, perché “la macchina fa un rumore che non mi convince, meglio se guido io”. La verità è che non si fida di me. Affermazione omnicomprensiva, non solo alla guida.
Siamo solo io e lei in viaggio, dovevano essere due giorni di relax e invece è stato uno dei fine settimana più congestionati della storia. D’altronde mia madre sembra essere stata programmata per stressarsi, come se per lei fosse assolutamente proibito sedersi e respirare. Tutto ciò che non è “fare”, per lei è perdere tempo e quando perdi tempo le cose ti sfuggono di mano. Peccato che le cose sfuggano di mano sempre, soprattutto a lei e a me. Perde tutto, perché fa mille cose insieme. Lei è quella che viaggia con le buste, anche quando ha il trolley: ha sempre un paio di buste in mano, appese alle braccia, al collo. Nessuno, guardandola, direbbe mai che è uno degli ingegneri edili più richiesti della Campania. A parte l’aspetto impeccabile con il capello sempre perfettamente in piega, che sembra essere stato studiato da un geometra, del classico ingegnere non ha proprio niente.
– Ho bisogno di un caffè, mi sto addormentando
Mentre lo dice strizza gli occhi, sembrerebbe un gesto insignificante e invece no, io so che lo fa per rinfacciarmi che è stanca. Ha insistito tanto per mettersi alla guida e adesso ha sonno. Non so neanche perché mi sconvolgo, fa sempre così: insiste per fare una cosa e poi se ne lamenta.
Ci fermiamo nella prima area di servizio: è uno di quei vecchi autogrill molto brutti, in cui i ripiani dei tavolini sono in finto granito e all’uscita hanno i CD di Laura Pausini in vendita a 9,99.
Siamo una strana coppia quando usciamo dalla macchina, o comunque, in un modo tutto nostro, siamo appariscenti. Mia madre è una donna sulla cinquantina, è molto alta, anche oggi sembra appena uscita dal parrucchiere ed è vestita da signora di città in gita fuori porta: il golfino sulle spalle e gli occhialoni in testa. Io sono vestita da mare, shorts di jeans e camicione, da poco ho fatto i capelli rosa, ma i miei non sono in piega e sfidano ogni legge di gravità. Ho ventisette anni, ma chiunque, vedendomi, mi scambierebbe per un’adolescente e ancora non ho deciso se questa cosa mi piace o meno.
Credo sia per questo strano effetto che facciamo insieme che due poliziotti ci stanno guardando e la cosa mi infastidisce molto. Come si permettono? Ma poi stanno guardando lei o me? Uno dei due si avvicina:
-Provate a far ripartire la macchina, fa un rumore strano
Ecco qua, adesso mi sento anche scema ad aver fatto un pensiero del genere. Lo stesso sentimento di vergogna e imbarazzo lo provavo quando ero più piccola e avevo il terrore degli attentati. Penso che chiunque ne sia stato ossessionato dopo l’11 settembre; ogni uomo che vedevo da solo in un luogo affollato e con un forte odore di colonia era un potenziale attentatore di Al Qaida. Allora lo tenevo d’occhio, sussultavo a ogni movimento sospetto, ogni volta che prendeva qualcosa dalla tasca o che gli cadeva qualcosa di mano. Poi, quando mi rendevo conto che non aveva fatto saltare in aria nessuno ed era solo la mia immaginazione masochista, mi sentivo in colpa per aver accusato nella mia testa un povero sconosciuto che aveva solo esagerato con l’acqua di colonia. La colonia era fondamentale; dopo la caduta delle torri gemelle, si raccontava che i profumi forti servissero a mascherare l’odore dell’esplosivo. Come se poi qualcuno sapesse riconoscere l’odore dell’esplosivo…
Adesso, fuori dall’ingresso dell’autogrill nessuno sguardo lascivo e nessuna brutta intenzione: c’è la nostra macchina ferma in un’area di servizio, che fa un rumore strano di ferraglia, ci stanno solo chiedendo di rimettere in moto per controllare che non ci sia nessun problema.
Mia madre mi guarda indispettita e mi fa: -Te l’avevo detto che c’era un rumore strano, non mi credevi!
E ti pareva che non ci scappava la nota di demerito per me?
La chiave gira, il quadro si accende, ma il motore non parte. Proviamo una, due… dieci volte, ma niente. Caput.
Il problema che speravamo non ci fosse, c’è. Ed eccoci qua: bloccate in un autogrill, in un posto desolato tra la Campania e la Puglia, un luogo più metaforico che fisico, con l’auto che non parte, lontane sia dal punto di partenza che da quello d’arrivo.
In un attimo sono tutti intorno all’auto, tutti ingegneri meccanici mancati: i poliziotti ipotizzano un guasto al motorino di avviamento “è chiaro, è proprio il rumore del motorino”; più in là c’è un signore dai movimenti molleggiati che consiglia di spingere la macchina a mano per farla ripartire “levi il freno a mano e poi la spingiamo tutti”; e ancora una famiglia in cui il marito panciuto continua a dire che il cugino meccanico gli ha spiegato come fare in casi del genere, mentre la moglie annuisce dicendo “ah sì, ci è già capitato parecchie volte”.
C’è una sorta di rituale laico che si ripete in questi casi: le donne si zittiscono aspettando indicazioni, mentre gli uomini diventano improvvisamente progettisti della Formula Uno, conoscono il motore come se lo avessero costruito loro, anche quando non hanno la patente. È in questo preciso istante che vorrei avere delle vere competenze di meccanica per zittirli tutti e sottrarmi a questo spettacolo del chi ce l’ha più lungo. Ma obiettivamente non sarei in grado di porre fine allo show e non ho voglia di levare a ognuno degli avventori il suo momento di gloria testosteronica. La rivoluzione la faremo un’altra volta.
Mia madre ha provato a riaccendere la macchina per l’undicesima volta. Niente, il rumore è il solito verso meccanico. Non si accende niente. Esce dall’abitacolo con espressione rassegnata e non si capisce se vuole piangere o ridere.
-Chiama zio Nanni, io non so che fare. Dobbiamo tornare a Napoli subito.
Il signore panciuto con il cugino meccanico si intromette:
-Senza che chiamate nessuno, proviamo a levare il freno a mano, sentite a me!
Vorrei picchiarlo, non c’è il freno a mano nella nostra macchina, è automatica. Lui insiste, mentre la disperazione di mia madre adesso si può quasi toccare.
Alzo la voce: -Non si può togliere il freno a mano, non c’è!
-Va beh, signorina, è inutile che si incazza, era per aiutare. Mamma mia e come state… – Si gira verso la moglie e le fa cenno di andarsene.
È un attimo, la piccola folla intorno a noi si dirada. Incredibile, basta rispondere male. Nonostante le comprovate competenze dei nostri consiglieri, decidiamo di affidarci a una persona che ripara le macchine per lavoro. Stiamo aspettando il carroattrezzi, perché l’auto è morta e sembra non voler resuscitare.
Non è la prima volta che ci succede, a casa mia siamo soliti comprare automobili usate, economiche, che sembrano gli affari irrinunciabili della vita e che poi ci lasciano a piedi nel primo squallido autogrill d’Italia.
È uno di quei momenti in cui il passo tra la commedia e la tragedia è davvero breve e non sai mai quale sarà l’evento microscopico che farà sbilanciare l’ago verso la seconda. Ma sai che quel momento arriverà.
Abbiamo chiamato l’assicurazione, abbiamo scoperto di essere assicurati in casi come questo. La questione sembra doversi risolvere in poche ore al massimo.
La cosa mi sorprende: le soluzioni semplici non sono mai state il punto forte della mia famiglia, soprattutto quando c’è di mezzo mia madre. Mi sarei aspettata una cosa del tipo: chiamiamo un amico che abita nel raggio di 30 km, ci facciamo accompagnare ad Avellino, poi chiamiamo mia sorella per farci venire a prendere da Napoli con la macchina di qualcun altro, il tutto si sarebbe svolto più o meno in otto ore. Il nostro è un modello taylorista di chiedere favori, ognuno fa, nel suo, una piccola parte di un progetto molto più ampio. Tanto che non sono pronta a credere che noi chiamiamo un numero, segnaliamo un problema e ce lo risolvono, è una prassi a cui né io, né mia madre siamo abituate.
– Perché ci troviamo sempre in situazioni come questa?
L’espressione di mia madre è quella di una persona che non dorme da giorni e il tono è molto più grave di quello che ci si aspetterebbe.
So esattamente cosa sta succedendo e questa volta non farò niente per assecondarla. È la solita pantomima: lei da sola contro il mondo che le impone delle atroci sofferenze e tutti dobbiamo stare in cerchio a dirle “Povera, succedono tutte a te. Dai che adesso risolviamo”. No, questa volta provo a farle capire che non è successo niente di grave. Invece quello che mi esce dalla bocca è una cosa che non si capisce se è uno sfottò o un rimprovero.
– Non so, forse dovremmo smetterla di comprare auto di merda. Non credo risolverebbe tutti i nostri problemi, ma sicuramente ne toglierebbe di mezzo una fetta… Potremmo andare in una concessionaria, ad esempio, e scegliere una macchina che cammini e che non ci faccia temere di morire in un atroce incidente solo perché all’improvviso decide di smettere di funzionare.
Eccolo: l’esatto momento in cui il mio sarcasmo fa crollare, come un dito contro i tasselli del domino, i nervi dell’interlocutore. Su mia madre, questa volta, l’effetto domino è un inesorabile scivolamento verso la disperazione. Mi guarda con un lento movimento dal basso verso l’altro, ha la faccia di un bambino che è stato appena sgridato.
– Sono inadeguata in tutto quello che faccio, dal lavoro, alla famiglia, alla scelta della macchina. Non sono più capace di muovermi da sola e metto a rischio anche la vita degli altri.
L’ultimo tassello è caduto e buona parte della colpa è mia; proprio non potevo evitare di fare l’ipotesi apocalittica. Adesso sono io che me lo chiedo: Come ci siamo arrivati a questo punto?