Sollievo

Sto scrivendo perché non ho voce, l’ha risucchiata il silenzio da cui provengo e a cui ritorno per attutire gli urti. E io sono asfissiata da questa stanza, mi soffocano le coperte, il buio mi cancella. Mamma, cercami a tentoni dentro questa notte. Ti sentirò, mi troverai. Tutto è vacuità in cui io precipito e resto lesa. Guardo in alto: il cielo non c’è, vedo solo le nuvole. Stanno per piangere su di me. Un brusio di voci indistinguibili, senza più un volto né una storia, ripete il mio nome all’unisono con disprezzo, storpiandolo; diventa incomprensibile ma so che stanno cercando me. Arrivano da ogni fenditura dei miei pensieri, colpiscono tutte le debolezze che non ho saputo proteggere. Di quel che sono non resta che un nome, una parola distorta che mi strappa l’identità e mi rende nulla, come niente è il mio corpo da cui chiedo di liberarmi per vivere senza farmi vedere. Mi sento sporca rinchiusa in questo involucro di materia consumato e gracile, non riesco a gestirlo mentre le braccia smunte si agitano inquiete e le dita si aggrappano all’aria che diminuisce con il mio respiro. Risiede in me un male troppo grande che non lascia posto al bello, occupa tutto lo spazio fino al cuore, ostruendo la vita. Non so più contenerlo, insiste colpendomi dall’interno per crescere ed espandersi ancora. È un segreto tra me e me stessa che non riesco a decifrare. Vorrei saperlo tirare fuori per inabissarlo nell’oceano, l’unico luogo a cui non posso ritornare, perché impossibilitata a raggiungerlo. Ho provato a difenderlo, poiché incapace di dissimulare, tra i banchi di scuola, alle cene di famiglia, il sabato sera con gli amici, in un treno per tornare a casa quando, in realtà, la casa la stavo lasciando. Ho provato a svelarlo, parlandone come se fosse un affetto lontano, tralasciandone i particolari. E ho provato a dimenticarlo, rinnegandolo. Infine, l’ho riportato a me, sottraendone ogni lembo a chi ho sperato invano che potesse riconoscerlo, sentendomi colpevole di non averlo rispettato raccontandolo a chiunque mi promettesse ascolto, chiedendo che ne avessero cura altri perché io non avevo la forza di sostenerlo né la voglia di comprenderlo. Regredisco ora al silenzio e all’oscurità, dove non mi è possibile delineare visivamente i contorni del mio corpo e tuttavia ho piena coscienza di esso, dove per non farmi vedere non serve nascondermi, dove i giorni, i minuti e le ore non hanno significato e fanno svanire il tempo. Resterò qui fin quando la pioggia non cesserà di cadere. Proverò a ricompormi – ritornerò: diversa, non so se migliore o peggiore, ma integra –, raccoglierò i cocci lungo il cammino e li rimetterò insieme strada facendo. Coglierò un fiore rosso durante il tragitto, tra i capelli sarà il mio simbolo e la mia difesa. Raggiungerò la meta. Il buio è una scelta, non una conseguenza. In questa stanza non so mai quando è notte e quando è giorno, come non so, ora, se sto male o bene. Non sento niente, solo un vago languore, un’insolita calma. Accendo la luce – non è il sole ma illumina lo stesso; spalancare le finestre vorrebbe dire svegliare il mondo e io non sono pronta. C’è uno specchio in cui posso vedermi anche da seduta. Mi ri-conosco. Mi ero dimenticata. Ho tanti lividi, li distinguo appena nella luce fievole. Non ricordo quando né come mi abbiano macchiato la pelle di dolore, ma so da dove provengono. Mi ricordano il caffè che ho versato accidentalmente su questa pagina di quaderno stropicciata e logora. Giorno per giorno, lentamente, cambiano tonalità, li vedo sbiadire per non ritornare mai più. Non stanno svanendo, li sto interiorizzando. Li sta risucchiando il silenzio. E penso che forse è questa la salvezza: non la consapevolezza del dolore quanto la percezione del piacere che la sua scomparsa, con il tempo, procura.