Sono in esilio nella mia poesia
Ora vago tormentato nel paese
come uno spirito accoltellato.
Non mi fa più paura la morte
né il freddo della sera.
So chi mi ha amato
nella collina delirante.
Un amore eterno:
il fango e il buio invernale.
Dietro le spalle m’insegue
come ombra il destino.
Un uomo si aggira affranto nell’arida Albania. Anima lacerata. Il dolore per il distacco imminente dalla sua terra è lancinante. Il suo spirito accoltellato non ha più paura della morte, è impenetrabile al freddo. Il destino l’insegue. Va affrontato. Solo il passato resta integro: è nell’amore ricevuto e dato, è nella lingua in cui scrive i suoi versi, lingua madre, sorella, amante, suoni familiari per non tagliare le radici, per non lasciare che il dramma del tempo che logora copra la memoria di ciò che non è stato, di quello che poteva essere.
I versi di Gëzim Hajdari sono frammenti vividi, cruenti, di una condizione esistenziale ed intellettuale molto forte, di sradicamento, di abbandono, di solitudine. Poeta esule e rifugiato politico, è attualmente considerato tra i massimi poeti albanesi contemporanei viventi. Nato nel 1957 in un piccolo villaggio nella provincia di Lushnie, a diciannove anni pubblica il suo primo volume di poesie. Successivamente esponente politico e scomodo giornalista d’opposizione in Albania, conduce parte della sua esistenza a denunciare i crimini e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxta e poi dei regimi post-comunisti. Nel 1992 è costretto a fuggire dal proprio paese in seguito a reiterate minacce e approda esule in Italia, dove qualche anno dopo riceve il prestigioso Premio Montale e in seguito la cittadinanza onoraria dalla città di Frosinone. Dice di sé: “Sono in esilio nella mia poesia. Dove trovo conforto e tormento”. Il conforto è quello della parola poetica che lo riconcilia con il mondo, nel continuo tentativo di comprenderlo, di attraversarlo. Il tormento è l’eterno dissidio che alimenta la sua interiorità e il suo essere etranges: cercare ogni giorno di rinascere, di crearsi una nuova identità, ma anche di superare con la dolorosa malinconia del suo canto quei “muri di odio” che hanno dilaniato i Balcani. È una condizione dell’animo per certi versi privilegiata, perché gli consente di collocarsi al di sopra del nefasto nazionalismo di cui la sua patria è stata vittima e che “ha divorato i suoi figli”.
Ci perdiamo nella nebbia,
come i corpi nell’abisso del tempo.
Partiamo di notte,
dimenticando che siamo ciechi,
per raggiungere un territorio nudo
del quale ha bisogno la nostra voce.
Andiamo al mare per parlare
e lanciare sassi controvento.
Canto il mio corpo presente
nato da questo freddo spazio
che nulla promette.
Il racconto della sua esperienza di distacco e di solitudine universalizza l’essere migrante: il riconoscersi orfano di patria lo rende appartenente ad un unico luogo, il “corpo presente”, che protegge dallo spazio freddo e arido di promesse e che gli consente di sopravvivere.
I suoi versi provengono dal basso, da un intenso percorso umano ed interiore, dalla sua esperienze di vita, e riescono a illuminare su temi alti, a ispirare il lettore sul senso della bellezza e della “virtù”. Nelle numerose raccolte, a colpire e scuotere le coscienze è l’onestà intellettuale che Gezim Hajdari mostra di avere di fronte alla pagina bianca. La sua è un’autentica poesia di impegno, profetica, capace di sopravvivere ai secoli. Non si può non cogliere l’allusione ad altri grandi poeti della lontananza e dell’esilio. Viene in mente Dante e il suo viaggio metafisico verso la salvezza, trasfigurazione simbolica del peregrino errante che si strugge per la nostalgia dell’amata Firenze, ma anche il grande poeta turco Nazim Hikmet, che aveva detto “è un duro mestiere, l’esilio / un duro mestiere…”, ancora Pablo Neruda: “Aspro è l’esilio, / e la ricerca che chiudevo in te / d’armonia oggi si muta / in ansia precoce di morire…”. Il percorso di Hajdari in tal senso ha dei tratti di vera originalità. È un poeta bilingue e questa è una sua peculiarità oltre che un’esigenza culturale e intellettuale. “Migra” costantemente da una lingua all’altra come da un territorio all’altro. Molti dei suoi testi sono stati scritti direttamente in Italiano e ciò dimostra quanto la ricchezza umana della sua scrittura sia aperta ad ogni orizzonte e renda capaci di oltrepassare i confini ristretti della propria terra di origine, eleggendo a luogo ideale il mondo intero.
Sono campana di mare
di silenzi e di voci
chiuso nel Tempo.
E nessun Dio sente i suoni
di acqua e di fuoco
della mia carne.
In Occidente,
ogni primavera che passa
è ferita che si rinnova.
Ed io,
scavato da ombre e pietre,
trascorro le notti italiane
nel gorgoglio di sangue.
Da anni nell’ansia di morire.
È la ricerca di una nuova appartenenza, di un nuovo equilibrio. Passare da una nuova lingua è per lui un rigenerarsi, un ri-crearsi, un continuare ad essere “contadino della poesia” in ogni luogo, in nessun luogo:
Fare il contadino della poesia vuol dire salvezza,
fare il contadino della poesia vuol dire vivere negli altri,
fare il contadino della poesia vuol dire attraversare la vita,
fare il contadino della poesia vuol dire essere
uno straniero di passaggio.