STALAG II A
Il Calatafimi era un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana varato a Livorno nel 1924, poi declassato a torpediniera dal 1938 al 1943. Una volta caduta nelle mani tedesche all’armistizio, e incorporata nella Kriegsmarine, la marina da guerra germanica, la nave assunse il nome il nome di Achilles, poi TA 15 e, infine, come TA 19 fu affondata il 9 agosto del 1944 dal sommergibile RHN Pipinos, non so di quale nazionalità (britannico? statunitense?), e in quali acque. Era comandato dall’inizio del secondo conflitto mondiale dal tenente di vascello Giuseppe Brignole, ligure, che vi salì il 24 aprile del 1940 mentre la nave era di base a La Spezia. A bordo, secondo fonti discordanti, vi erano 117 o 102 o 134 uomini di equipaggio tra ufficiali, sottufficiali e marinai, Tra questi, un caporalmaggiore, addetto ad uno dei cannoni Schneider-Armstrong: mio padre. Mio padre, nato in provincia di Napoli nel 1924, aveva la stessa età della torpediniera. Il tenente di vascello aveva lo stesso cognome di una delle stazioni di Genova, città in cui sono nato, la stazione Brignole da cui noi partivamo più spesso che dall’altra, la stazione Principe: quella dei Brignole è una famiglia nobile che ha dato anche dei dogi a Genova (non so se il tenente di vascello ne fosse diretto discendente). Sulla copertina del libro di memorie di Giuseppe Brignole c’è una foto con tutto l’equipaggio: lì, tra i corpi e i volti che si affollano davanti all’obiettivo, doveva esserci anche mio padre, ma non tutte le fisionomie sono chiare, e lui non lo riconosco. Ho delle foto di famiglia in cui mio padre è a bordo della nave, ma lì, nel libro, non riesco a individuarlo.
L’8 settembre del ’43 i tedeschi s’impossessano della nave. Brignole si rifiuta di passare nella marina tedesca e finisce in campo di concentramento. Probabilmente anche il resto dell’equipaggio fa la stessa scelta. Di sicuro mio padre. In un documento risulta catturato dai tedeschi l’8 settembre 1943, in Grecia, al Pireo, il porto di Atene – nome che dai racconti di mio padre emigrerà nei miei studi di filosofia greca (questa la mia Grecia) – e deportato nello Stalag II A. Stalag è la contrazione di Stammlager che significa “campo base”: nei vari Stalag venivano deportati i prigionieri di guerra. Quello di mio padre fu lo Stalag II A, stando al documento in mio possesso. Questo campo era a Fünfeichen (dove ora sorge un Memorial Stammlager), nei pressi di Neubrandenburg, nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore, a nord di Berlino. Mio padre mi diceva di essere stato trasferito in altri campi e di essere alla fine andato a lavorare in una fattoria dove i contadini lo trattavano bene, e la cui figlia – con la quale forse aveva una relazione – l’aveva aiutato a scappare: fingevano di essere una coppia in viaggio. Tutt’e due giovanissimi. Alla fine della guerra mio padre aveva ventun anni. Ebbene, mi raccontava di essere passato da Berlino, durante questi spostamenti, e di aver visto la città in macerie. La grande e terribile storia del Novecento era restituita al bambino dal racconto del padre. Dal documento risulta essere rientrato in Italia il 22 giugno del 1945, o forse è la data in cui si è ripresentato al suo comando, o comunque la data della sua registrazione ufficiale, perché secondo i racconti che faceva era in Italia prima ancora che il conflitto fosse finito.
Ma un passo indietro.
Dal diario di bordo della Calatafimi, a distanza (mio padre non c’è più da tempo), ritrovo riscontri delle sue narrazioni. Per esempio il salvataggio dell’equipaggio di una nave italiana affondata dal nemico (che allora erano gli angloamericani) per il quale, come il comandante Brignole, ha avuto una croce di guerra e delle mostrine. Una decorazione per aver salvato, non per aver ucciso. Il pelo dell’acqua era in fiamme per il carburante che si era versato in mare all’affondamento della nave. Il bambino era impressionato dall’immagine del fuoco sull’acqua. La Calatafimi scortava convogli dal Pireo alla Libia (il diario di bordo conferma anche questa attività della torpediniera): caldo diurno e freddo notturno in terra d’Africa. Raccontava, il padre, per scorci, dei combattimenti che in realtà non amava rievocare a me e a mia sorella: al suono dell’allarme si buttavano giù sorsate di alcolici e si prendeva posto ai pezzi. Si beveva anche in libera uscita: una volta, di rientro sulla nave, lui, completamente sbronzo, ne vide due, di passerelle, e imboccò quella sbagliata, finendo in acqua ma senza mollare le bottiglie di liquore sempre strette sotto le ascelle. Da allora non amava più bere, se non un bicchiere di vino a tavola e qualche strappo alla regola per un sorso di liquore.
E poi il campo, la neve, il freddo: rientrati in baracca, un compagno di prigionia una volta portò la mano all’orecchio per riscaldarlo e se lo ritrovò in mano. E poi le bucce di patata, gettate dai cuochi tedeschi, raccolte nell’immondizia per integrare le magre razioni. Gli aneddoti vengono ora fuori alla rinfusa, così come volta per volta uscivano dalla voce del padre (e anche i tempi, qui, vanno dal passato remoto al presente storico che è il presente del ricordo).
Al rientro in Italia, varcato il confine dopo la fuga, lo catturano i repubblichini di Salò: l’alternativa: arruolarsi nelle milizie della Repubblica sociale o tornarsene in campo in Germania. Allora, nei repubblichini. Ma si trovò a Genova (dove appunto poi sarei nato io) quando la città insorse contro l’occupante germanico: Genova dal 23 al 25 aprile del 1945 si liberò da sola, come aveva fatto Napoli nel 1943. Mio padre, con il tedesco imparato nei campi, convinse il comandante di una nave germanica ad arrendersi: il suo piccolo contributo ai partigiani genovesi e alla Resistenza (l’ultima strada in cui abbiamo abitato a Genova ha il nome di un partigiano). E qui il Chronos diventa il Kairos per mio padre, il momento giusto per fare la cosa opportuna. Da Genova se la fece a piedi, sui binari disertati dai treni, fino al paese, nell’entroterra napoletano, qui, ai confini con l’avellinese e il salernitano: a Genova sarebbe tornato, con mia madre sua compaesana, per farmi nascere lì, da dove aveva iniziato il ritorno, e dove l’aveva riportato il suo servizio in polizia, e da dove mossero i miei andirivieni. Alla notizia del suo arrivo in paese, mia nonna gli si precipitò incontro con una carrozzella a nolo: quando lo vede si butta giù dal veicolo, e mio padre per afferrarla deve mollare la bicicletta che inforca.
Ma torniamo di nuovo indietro, allo Stalag II A. Il campo è a poca distanza dall’attuale confine polacco. E nella Pomerania occidentale scorre un fiume che si chiama Rega, sì, Rega, il cui corso passa a poco più di un paio di ore di auto dallo Stalag. Mio padre non sa di certo che a poca distanza, tra la neve, scorre il fiume omonimo.
Non lo sapevo neanch’io, fino a qualche giorno fa. E non sapevo neanche che in polacco Rega significa scaffale, libreria. E lo apprendo ora, in questa casa, nel paese in cui lui era arrivato in bicicletta (dopo la tanta strada a piedi), e in cui da Genova – e poi da altre terre – sono tornato anch’io: in questo appartamento pieno di libri e librerie.
I nomi tengono insieme tutte le storie. Le storie sono storie di nomi. I nomi sono nelle storie e hanno dentro di sé le storie. Brignole, Genova, Napoli, Rega, Libreria. La trama che li lega è la vita, le nostre vite. O sono i nomi a dettare la trama. Dimenticavo “Calatafimi”: mia moglie è siciliana e si chiama Vita.