Su questa terra è scorso troppo sangue: Li chiamarono… briganti! di Pasquale Squitieri

Una delle questioni storiografiche più complesse e discusse della storia italiana degli ultimi due secoli è senza dubbio quella del brigantaggio. Questo fenomeno di banditismo caratterizzava il meridione d’Italia già prima dell’unificazione nazionale (1861); tuttavia, con la nascita del Regno d’Italia, conobbe la sua stagione più violenta e drammatica: il governo inviò l’esercito, ma fu necessario un decennio affinché il brigantaggio potesse dirsi sconfitto. Questa vicenda, che si può considerare una vera e propria guerra civile, lasciava in eredità drammi irrisolti, pregiudizi, instabilità e anche un patrimonio di canti e racconti popolari favorevoli ai briganti.
Il nostro Paese fu riunificato dopo secoli di frammentazione politica e dominazioni straniere nel 1861. Tuttavia nel Risorgimento, che aveva portato alla realizzazione dello Stato unitario, avevano prevalso le forze borghesi e moderate rappresentate dal governo piemontese; di conseguenza nell’Italia unita furono il più delle volte trascurati i problemi dei ceti più poveri (concentrati soprattutto nel Sud) e del meridione in generale che, più che annesso, fu – diciamolo! – colonizzato.
Di qui la secolare “questione meridionale”, ben chiara al nostro Pasquale Villari pochi anni dopo l’unificazione e a tutt’oggi per molti versi irrisolta.
In un tempo in cui, secondo la formula di D’Azeglio, si sarebbero dovuti «fare gli Italiani» e invece larghe fasce della popolazione vennero di fatto dimenticate, alcuni briganti sono stati semplicemente dei delinquenti, ma altri possono davvero essere definiti patrioti ribelli a un governo centrale sordo e cieco.
Per analizzare il fenomeno in maniera più equanime di quanto sia stato fatto in passato, può essere d’aiuto un film del 1999 del regista napoletano Pasquale Squitieri, Li chiamarono… briganti!, pellicola molto discussa, osteggiata e a suo tempo perfino ritirata dalle sale.
Il film è incentrato sulla figura del brigante lucano Carmine Crocco. Ex-garibaldino, Crocco cercò come tanti altri di integrarsi nel nuovo Stato unitario sfruttando un procedimento di amnistia per reati pregressi, ma non gli fu consentito. Incarcerato per un vecchio delitto d’onore, fu liberato da chierici e borbonici che intendevano servirsi della sua nota abilità militare per abbattere il Regno appena costituito e restituire il trono dell’Italia meridionale ai Borboni. Carmine Crocco, deluso dallo Stato italiano per il quale da garibaldino aveva combattuto con coraggio e convinzione e che lo aveva escluso, fece sua la causa. Raccolse così intorno a sé una banda di briganti, nella quale mise ordine e disciplina e portò un progetto militare e politico appoggiato anche dalla Spagna. Di questi banditi che la povera gente acclamava come liberatori faceva parte anche un uomo destinato a diventare, ancor più di Crocco, un mito: Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco. In seguito, però, quando prevalsero nuove ragioni di opportunità politica, Crocco fu abbandonato da tutti coloro che dalle stanze del potere l’avevano sostenuto e finanziato fino ad allora e il brigante rimase solo ed esposto, con i suoi compagni, alla repressione. La povera gente perse così quelli che riteneva i propri paladini. In una delle ultime scene del film, poche desolate e desolanti parole sintetizzano la situazione così com’era percepita dai contadini meridionali: per i miserabili del Sud c’erano solo due possibilità, o briganti o emigranti; vinto il brigantaggio, restava solo da abbandonare la propria terra.
La pellicola non racconta l’epilogo della vicenda, che però è ben noto dalla Storia: Crocco fu arrestato e rimase nelle carceri italiane fino alla morte, sopraggiunta nel 1905. In un primo tempo era stato condannato a morte, poi la pena fu commutata verosimilmente per calcolo politico: giustiziare il brigante avrebbe contribuito grandemente a nutrirne il mito.
Il regista si è concesso non poche libertà: Carmine Crocco diventa napoletano (peraltro il cattivo doppiaggio a cui è stato sottoposto l’attore Enrico Loverso è una innegabile pecca del film) e diversi episodi sono rappresentati in maniera differente rispetto a come si sono svolti in realtà.
Il film in ogni caso rispetta il corso fondamentale della storia e rappresenta in maniera molto realistica ed efficace gli eventi e l’atmosfera del tempo: l’ignoranza e i pregiudizi dei settentrionali nei confronti dei meridionali considerati alla stregua di selvaggi; gli intrighi della politica nazionale e internazionale e della Chiesa; il doppio tradimento di cui fu vittima Crocco; i drammi di un Sud dimenticato.
Il protagonista, in particolare, è presentato come uomo feroce e vendicativo contro i suoi nemici, ma capace anche di gesti di grande altruismo e umanità. Un ritratto coerente con la verità storica, quale emerge da ciò che resta delle memorie del brigante (un testo in realtà molto controverso) e dalle diagnosi dei medici che in carcere lo esaminarono.
Davvero non si comprende la censura che ha colpito questo film, del quale si può anche non condividere (del tutto o in parte) l’interpretazione “revisionista” dei fatti, ma che alle soglie del terzo millennio mai si sarebbe dovuto ritirare dalle sale. Peraltro solo la rete (in questo caso davvero benemerita!) ce lo ha restituito, visto che videocassette e dvd originali sono a tutt’oggi pressoché impossibili da reperire.
Il regista è stato certamente un personaggio ambiguo per le sue scelte politiche e sotto altri profili, ma in questo caso ci ha regalato un film veramente bello che, pur con i suoi difetti, deve essere conosciuto e meditato.
Non sono borbonica. Il popolo meridionale era povero e ignorante, sfruttato e manovrato da baroni ancora per molti versi medievali e il fatto che le condizioni di questi disgraziati siano addirittura peggiorate con l’unificazione nazionale non basta certamente a far rimpiangere i Borboni. Tuttavia è tempo di abbandonare il mito del Risorgimento troppo a lungo nutrito anche a livello scolastico. È giunto, in realtà già troppo in ritardo, il momento di riconoscere anche le ombre del processo che condusse all’unità d’Italia. Sono convinta che l’unificazione andasse realizzata, per consentire al Paese di giocare un ruolo significativo sullo scacchiere politico internazionale; ma ci sono stati degli errori nel Risorgimento che occorre ammettere, insieme al fatto che per decenni questi si sono perpetuati allargando il divario tra Nord e Sud che si sarebbe invece dovuto colmare.
Oggi che nel nostro Sud lo Stato appare più che mai assente, lontano, ostile, e sembra di contro che le mafie rappresentino un’alternativa perfino auspicabile per ottenere ordine e giustizia, efficienza e perfino umanità, si è portati davvero a pensare che non ci sia speranza per queste terre martoriate. E invece, proprio perché oggi conosciamo meglio la storia, anche grazie a film come quello di Squitieri (che, per esempio, denuncia l’accordo tra governo italiano e camorra per sconfiggere il brigantaggio), abbiamo l’opportunità di reagire, di sfuggire alle piovre e di costruire un futuro diverso, in cui la parola “Stato” non sia più sentita come sinonimo di sopruso e sia possibile far valere i propri diritti e la propria dignità attraverso la via della legalità e non quella della violenza e della prevaricazione.
Purché non ci si arrenda, rassegnati ad un corso degli eventi che si ritiene ineluttabile, un progresso positivo è sempre possibile. È necessario impegnarsi, ciascuno nel proprio ruolo, perché i grandi cambiamenti partono sempre e solo dal basso; e sono indispensabili cultura, dedizione, onestà.
I meridionali non devono commettere l’errore di contribuire a prolungare nel tempo le storture di due secoli fa: siamo stati vittime, ora è tempo di essere artefici di un avvenire migliore. E il punto di partenza è naturalmente il rifiuto del sistema mafioso a tutti i livelli, quel sistema che ha preso il posto dello Stato assente o si è accordato con le componenti più degenerate di esso inquinando ogni cosa: bisogna condannare l’inchino della Madonna in processione di fronte alla casa del boss; rigettare la logica corrotta e corruttrice del clientelismo; rinunciare all’omertà; manifestare contro i delitti della mafia e della politica connivente (come nelle mille terre dei fuochi di cui è disseminato il nostro territorio).