Teofania del Senno di poi

Le lenzuola sono ancora fresche nei punti inesplorati. La mia schiena si capovolge di continuo, batte sentieri già percorsi che portano ad un limbo conosciuto: stasera, per l’ennesima volta, ho litigato con Morfeo ed Eiréné. Sospiro – so già come andrà a finire. Davanti a me appare già il compagno instancabile delle ore piccole, il piccolo gatto che, silente, sgattaiola dal buio e si accucciola sul cuscino con il muso umido di terrori che mi sfiora la tempia. Sbuffo – i polmoni dissentono. Non c’è tempo per la ribellione, l’oscurità mi apre un varco di interrogativi: come sarebbe potersi rivedere? No, aspetta – pensaci: immagina una specie di Netflix biografico che custodisca memorie di vita vissuta, dandoti la possibilità di percepire, di percepirti con consapevolezza, con precisa coscienza dell’attimo dopo. Cosa vedresti se potessi riguardare i momenti che hanno preceduto la catastrofe? È sulle note di questa idea futuristica che mi compaio davanti – cioè, non io io, quella che ero prima che il mondo mi graffiasse fuori la fame di vita.
Mi guarda: ho sempre problemi a decidere cosa dirle. La vedo che tiene fissi gli occhi sul parabrezza, brillanti di adrenalina. Vicino alla Panda gialla passa un fiume di giovani ignari, nemmeno ci guardiamo, ma sui loro visi sfocati e acerbi di tempo riconosco fisionomie amiche, e mi meraviglio davanti all’imprevedibilità. Sorrido per un secondo, nel tepore della mia casa dormiente, e penso che fra tre anni e mezzo questi giovani saranno privati della loro gioventù, che se lo sentiranno dire tutti i giorni. Ma la gioventù è solo una fase temporale, rifletto con sofismo, mentre mi costruisco paradossi logici che ancora non sono in grado di risolvere. L’universo parallelo su cui affaccia la mia finestra creativa pare avermi ascoltato, sulla testa dell’altra-me appare un numero, un conto alla rovescia: tre anni e mezzo, appunto. Una fitta nello stomaco mentre mi guardo stare seduta, immobile, sulla macchina che ancora abbiamo parcheggiata fuori casa, sento il bisogno, urgente e bruciante, di parlare, di metterla in guardia, di dirle qualcosa – qualsiasi cosa, purché possa rimediare agli errori che io ho scritto sul foglio bianco del mio liceo, purché possa imparare da me, purché la mia esperienza non sia vana.
Un altro momento compare in parallelo, di gran lunga meno importante, mi dico. Sono seduta ad un tavolo per due, nel bar di sempre, guardo fuori mentre piove ed è già buio: diciotto giorni. Mi si serra la gola, porto una mano alla bocca per non fare troppo rumore, e ricordo il giorno. Cosa pensavo, diciotto giorni prima che la mia vita fosse stravolta? Diciotto giorni prima che una minuscola particella di decadenza dimostrasse all’uomo che i progressi di ventuno secoli non possono combattere il nostro perire, la primitiva necessità di anelare alla bellezza, cosa mi teneva distratta dalla vita? Il bisogno di parlare diventa ineffabile, mi taglia il respiro come un nastro di raso. Mi chiedo se ci sia una connessione, tra noi tre, un filo rosso che ci connetta nell’immensità che ci separa. Mi chiedo se loro stiano pensando a me, se mi carichino di aspettative e se, conoscendomi, avrebbero il coraggio di essere soddisfatte o manterrebbero la durezza di critica che mi contraddistingue – eccolo, forse è questo il filo rosso. Non le ho guardate per bene, non davvero. In un’auto gialla pallida nella provincia autunnale e tremendamente grigia c’è una chioma gonfia di capelli puliti e lucidi, scuri, che le incorniciano il viso e le ricadono sulle spalle, coprendole anteriormente il profilo. Il giubbino di jeans chiude in sé due spalle magre, quasi ossute, la testa è appoggiata allo schienale del sedile. Le guardo le gambe, per curiosità: non ha ancora preso quel brutto vizio di farle tremare quando ha l’ansia. Posso sentire il battito del suo cuore tremante nel mio, come se vivessimo lo stesso istante di ignara felicità. Cosa vedrei se potessi riguardare i momenti che hanno preceduto la catastrofe? Poi il cuore rallenta drasticamente, è ferito e ha dimenticato che il sole sorgerà di nuovo. È l’altra me che affonda in un dissacrante cappuccino pomeridiano il malessere. Sento l’eco dei suoi pensieri: avrebbe potuto fare di più, si dice, essere più attenta, più aperta, meno cauta. Maledetto il suo istinto di autodifesa. Questo si merita. Vedo i suoi occhi abbassarsi, forse si sono fatti lucidi – piange ancora davanti agli altri per qualcosa che non è la rabbia.
Ecco, vedi, forse direi questo. Avrei voluto imparare ad essere più clemente con me stessa, in questi anni, a guardarmi nello specchio e saper trovare per ogni difetto un pregio che mi rendesse degna di sicurezza, degna di stima, degna del mio stesso amore. Avrei voluto saper vedere l’intelligenza in me, e non sentirmi stupida. A parlare senza prima preoccuparmi di ciò che possano pensare gli altri. A fare il cuore duro, a non credere così tanto nell’umanità. Ad aspettarmi un po’ di meno dagli altri, a credere un po’ di più in me stessa. A volermi bene veramente, e non a rispettarmi come si rispetta il nemico, solo perché essere umano.
Ma non l’ho fatto, e me ne rammarico. Ogni volta che sento aprirsi vecchie cicatrici di difetti che non sono riuscita a curare appieno. Lascio a te il compito, piccola me, di trovare una soluzione a questo gran macello che ho fatto della mia anima martoriata. Ti pregherei di vivere con più leggerezza, di allentare la stretta delle catene sui miei polsi, di liberarmi dal tuo ossessivo pensare. Di smetterla di usare una frase di Jacopo Ortis per giustificare l’intensità con cui vivi la tua vita, ché Jacopo poi ne muore, e non vorrei questo per te – benché sarebbe certo una morte degna. Di bruciare la tua scorza, qualche volta, e di rischiare, perché no, di restare bruciata tu stessa invece di essere sempre così noiosamente cauta – di viverti nella tua straziante vulnerabilità con la serenità vibrante di chi si sacrifica alla vita, non con il ribrezzo di chi se ne vede indebolito. Ti pregherei di imparare a chiedere aiuto, per amor del cielo, di imparare ad alzare la mano ché qualcuno ti manda un salvagente, invece di ostinarti a nuotare con una palla legata al piede, di smetterla di usare due pesi e due misure per gli altri e per te, e di precaricare il tuo braccio della bilancia con severità immane. Ti direi tutto questo. Ti direi di concentrarti su ciò che conta davvero. Ti direi di uscire, di innamorarti – degli altri, di te, del mondo. Di un passante con l’ambizione negli occhi, di una coppia sulla metro che legge insieme lo stesso libro, di un bambino che ti sorride senza conoscerti. Di non smettere mai di brillare, di essere sempre il piccolo sole di chi ti circonda.
Ti direi tutto questo, ma lo terrò per me. A volte, per citare una serie che la prima me guarderà fra qualche anno e la seconda ha già visto, non c’è errore più grande che non commettere gli errori giusti. Non c’è errore più grande, per te, che imparare a chiedere aiuto, senza renderti conto a fine percorso di essere debitrice di tanti – della professoressa che ti ha presa per mano e tenuta in discreto silenzio; di quella in cui non avresti pensato di trovare una complice, a cui avresti dovuto dare una possibilità qualche anno prima; del professore che ha creduto in te prima che tu ti rendessi conto di valere qualcosa, anche se ha tenuto gelosamente per sé le tue lacrime più ruvide.
Non c’è errore più grande, per te, che imparare ad amarti senza passare per gli anni in cui avresti voluto che lo specchio fosse bugiardo, che la bilancia fosse rotta, che il tuo profilo non fosse così rotondo. Che imparare ad essere vulnerabile senza che le frecce ti segnino l’indulgenza sulle pareti dell’anima. Non ci sarebbe errore più grande, per te, che conoscere il valore della vita senza sentirtela scivolare tra le dita.
E quindi, no, non ti dirò nulla. Non saprai da me che in Benedetta, che sarà seduta dietro di te, troverai l’amica dei viaggi, delle battute improponibili, delle foto discutibili e degli abbracci veramente imbarazzanti; che tra due settimane una ragazza si trasferirà dallo spagnolo e diventerà l’imprescindibile appendice della tua coscienza; e non saprai da me che “il ripetente di terza B” e “quello che alle elementari stava nella A” ti dimostreranno che la differenza arricchisce, anche nella discussione. Non saprai da me che, ahimè, il tuo primo amore non sarà il ragazzo ricco e un po’ snob del quarto anno in cui riponevi tutte le tue speranze, né l’improbabile taciturno con lo stesso nome – perché a noi piace che ci sia un filo di ironia a legare le cose – qualche anno più tardi, non importa quanto a lungo la tua coscienza si ostini diversamente.
Lascerò che sia tu, a vivere. Che sia tu a fare di nuovo, daccapo, gli stessi errori e le stesse scelte, a farti le stesse ferite e a guarirtele allo stesso modo. Che sprechi innumerevoli giri terrestri su cose futili senza sapere che, tra tre anni e mezzo o diciotto giorni, la tua vita ti sarà strappata dalle mani nel momento in cui ne avevi più bisogno. Che scopra da sola le risposte alle tue bizzarre domande, la strada da percorrere, la stella da seguire.
Ai miei e tuoi professori tutti: grazie. Per aver creduto in me e per non averlo fatto, per avermi dato fiducia e per avermi messa alle strette – per aver detto che il protestantesimo «è un po’ come l’ISIS» e per aver storpiato il mio nome, innumerevoli volte (o per non averlo proprio imparato).
Ai miei amici: un giorno troverò il coraggio di dirvi che vi voglio bene guardandovi negli occhi. Fino ad allora, vi riserverò uno spazio tra le note del mio cellulare, e uno in fondo al cuore. Forse la gioventù non è un’età, forse la gioventù siamo noi, schiacciati in una Cinquecento alle undici di sera a combattere l’inverno e il coprifuoco con le hit dell’estate. O in mezzo al traffico delle dieci, in estate, con la paura di non arrivare in tempo a casa e con le camicie bianche attaccate ai fisici abbronzati – il mio non tanto, ma mi prendo la licenza poetica.
Il tempo è scaduto. Ti guardo aprire la porta, scendere dalla Panda. Dall’altro lato stai pagando una breve distrazione in tazza zuccherata. Intimamente, vi saluto con l’entusiasmo di chi vede la vita che viene vissuta.
Infili le AirPods, saluti Arianna ed entri nella stessa macchina.
Chiudi dietro di te la porta, ti avvii verso scuola – sbagli direzione, ci ridi su. E poi vai. A scuola. A casa.
Mi tiro su le coperte. È ora di dormire.