Tracce
Sento il bisogno delle tracce, ne sento il bisogno anche solo perché mi ricordano che un tempo ho sofferto. Perché non sopporto che il tempo scorra via, che fluisca senza lasciarmi niente. Parte del tempo ce lo strappano di mano, parte ce lo sottraggono con delicatezza, e parte scivola via senza che ce ne accorgiamo, e alla fine, presto o tardi, ci ritroviamo a stringere forte una manciata di ricordi, forse due o tre, opachi, scoloriti, lontani. L’unica prova di una vita vissuta, di cui, alla fine, viviamo solo una breve parte perché tutto il resto non è vita ma tempo. Questa è la morte. La morte è dimenticanza. Ora, guarda bene, cosa ti rimane nel pugno che stringi?
Niente, solo i segni delle unghie affondati nel palmo. Per quanto forte tu possa stringere alla fine non stringi niente, il tempo si è sgretolato e, quando arriva la morte, la vita pure. È questa l’immagine più cupa, più dolorosa, più aberrante. Appena sfiora la mente lascia graffi profondi, più cerchi di non pensarci, più bruciano gli spilli con cui ti perfora l’anima. Morire. Dimenticare. La consapevolezza di aver vissuto e l’incapacità di focalizzare un momento.
Lo sgomento nel cercare. Cercare cosa? Lo hai dimenticato. E allora continui, vivi un presente breve, un futuro incerto e un passato cancella
to. Corri con la mente e sfuggi al pensiero ma una fitta ti colpisce, coltellate di realizzazione. È ancora il tempo che scorre. Uno schiaffo. È ancora “questo momento” che diventa passato, sei ancora tu senza ricordi, il palmo graffiato, il tempo che scorre e la morte da vivi. È solitudine, è sconsolatezza di smarrire uno dopo l’altro i momenti, come non fossero mai vissuti. Ti hanno sempre mentito, che il tempo portasse via le cose materiali, ma che il tempo portasse via il tempo, chi lo sapeva? Una vita per imparare a morire. Forse è per questo che cerchiamo sempre delle tracce. Il ricordo fuori di noi vive dopo la nostra fine. Il ricordo fuori di noi diventa ricordo di altri. Continua a vivere nella morte. E tu continui a stringere, e lui continua a sanguinare, non il palmo, i momenti, il passato, tu. Si rompe, si sgretola, raccogli i pezzi ma svaniscono. Non ci vedi? Non si fanno vedere. Non ti rimane più niente, perché la mano non la apri? Chiamala paura del futuro, o della fine. Puoi ignorarlo, ma nessuno dimentica l’inevitabile avanzamento della morte. Aprila, aprila quella mano. Volano solo granelli di polvere e qualche goccia di sudore. È tutto quello che rimane di te. Credi. Te ne vai, tu, gli altri rimangono.
Raccolgono quello che hai lasciato. Pensavi fosse niente e invece è sabbia e mare e nel riflesso dell’acqua ci sei tu. Ti vedono, ti ricordano, la morte non è dimenticanza. È arte. E adesso ricordi di nuovo, ricordi tutto, ricordi Seneca. “Vitam brevem esse, longam artem”. Perché scriviamo? Perché ci siamo persi, perché ci siamo abituati a credere alle parole, per non riuscire a guardare direttamente noi stessi e il nostro passato, per correre dietro al mondo che si allontana in fretta, per restituire il vuoto che la morte o la vita ci hanno lasciato.
La vita è breve. Lunga l’arte.