Trascendente immaginario. Per Pasolini

Alla sinistra di Cristo sedeva Pasolini, il volto, come al solito, profondamente scavato, con sofferte zone d’ombra, martoriata pietra della scabra terra friulana, se vogliamo. Il lobo d’un orecchio era staccato e, qua e là, vecchie e incartapecorite piaghette erano le ultime tracce di orrende cicatrici. Il ciuffo di capelli era scomposto, riottoso, ribelle, dandogli l’aspetto d’un romantico ottocentesco, nonostante il viso – le guance incavate, le zone d’ombra, gli occhi mobili – fosse, in realtà, così soffertamente novecentesco. Il tutto faceva quindi di lui un essere, forse, perennemente fuori posto, o, forse, l’unico in grado di avere, in questo sbigottito divenire eracliteo – non ci si può bagnare due volte nello stesso sangue –, un posto. Quale, come, perché?
Il lato destro di Pasolini era nel cono d’ombra proiettato dal corpo di Cristo, che gli faceva da schermo rispetto ad un potente riflettore che aveva vaga collocazione, da qualche parte (e nell’ombra le ombre del viso divenivano vere pozze di una sofferenza, severo disgusto, disperata rassegnazione; un po’ tutto e un po’niente di tutto questo).
Il Cristo si tratteneva amichevolmente a conversare con Pasolini, ogni tanto si lisciava la barba, tormentandola all’altezza del mento, con dita nervose, lunghe e affusolate, eleganti, benché poi avessero, lui giovanetto, piallato, martellato (le prime botte sulle dita, anche lui, figlio di dio, dio egli stesso, e silenzio, niente bestemmie – che sarebbero state automaledizioni). Le dita da giovane intellettuale (vate o sofos?), di estrazione proletaria (ma Giuseppe non era un piccolo artigiano?), continuavano quel gioco, quel movimento, mentre parlava. 
Era un fitto chiacchiericcio, le parole indistinguibili, l’una risucchiava l’altra e vorticavano, venivano bevute, accarezzavano i lobi delle orecchie (quel lobo atrocemente smozzicato), rinfrescavano il vestibolo, dissetavano il cervello (quel cranio orrendamente fracassato).
Alla destra di Cristo sedeva Gramsci, ma se ne stava come in disparte, avrebbe voluto ringraziare per quel “Le ceneri” a lui dedicato, ma ne avrebbe avuto eternamente tempo, e si accontentò di pulirsi gli occhialetti, timidamente, e di scivolarsene in silenzio, risucchiato da un vuoto cosmico (uno di quei buchi neri?), ma non prima di aver sussurrato un “arrivederci, compagni”.
E così sembrarono universalmente soli, lassù seduti, seduti sul vuoto (Pasolini le lunghe e magre gambe accavallate), il Cristo e il poeta, candido usignolo dai versi sanguigni. Attorno era luce, sin verso l’orizzonte senza orizzonte, tranne una macchia oscura, un capannello di persone che acquistavano, senza pagarle, le parole, trasmesse in onde cerebrali, o più che altro spirituali, dell’ultimo numero della rivista di Agostino, l’uomo che si scoprì santo in modo inversamente proporzionale a quel santo che si scoprì uomo e che ora conversava del suo marxismo, del suo laico ascetismo col Cristo che gli aveva dedicato quel non-tempo: il tempo non esiste, non è altro che la misera veste delle lordure umane e materiali, l’invisibile albume, duttile, sottile, molle, che riveste il precipitato degradato della purezza divina (il concentrato di quello che a livello supremo è purissimo, rarefatto, sottile materia).
Pier Paolo intuiva che non si trattava di un sogno, uno di quelli che spesso aveva disperatamente tentato di sognare, ma ancora una vaga sensazione serpeggiava per tutto il corpo che era ora anche anima, incredula che il temporale soffrire potesse un giorno al di fuori del giorno stesso portare a questo eterno non soffrire.
Cristo parla e Pier Paolo ascolta, domanda e risponde, forse in eterno.

14.09. 1979

* Questo raccontino giovanile (avevo ventun anni) fu scritto sull’onda emotiva suscitata dalla visione delle foto del corpo martoriato di Pasolini pubblicate da “L’Espresso” l’11 febbraio 1979, in un articolo firmato da Carla Rodotà. Ora articolo e foto sono disponibili nel volume L’Espresso Pasolini uscito nel 2015 (nel quarantesimo anniversario della morte), alle pp. 164-165. Il mio raccontino è rimasto inedito, forse letto in occasione di riunioni tra amici a Napoli, in zona Ponti Rossi, probabilmente nei primi anni Ottanta. Non mi pare inopportuno (ri)proporlo nel centenario della nascita, in questo 2022.