Trattamento per un film su “Napoli Ferrovia”

Confusa, contraddittoria, malata, ma anche umana, accogliente, malinconica : è Napoli, “bella e dannata”, sempre più metafora della società di oggi ed emblema del nostro tempo, una Napoli sempre più multiculturale.
Ettore, l’anziano protagonista, che ormai vive lontano da Napoli, si trova a rivisitare i luoghi della sua giovinezza e si pone interrogativi sul degrado della città, sulla inettitudine dei politici, sulla visibile rassegnazione collettiva; domande senza risposte ma “già il solo chiedere serve a fare storia”.
Si interroga sul proprio passato facendo anche i conti con la propria identità di comunista fuori corso e paradossalmente l’iniziazione a questa nuova Napoli avviene per mano di un ex-naziskin, che dovrebbe essere ideologicamente agli antipodi: Caracas, un immigrato.
La vicenda pubblica s’intreccia con quella privata di Caracas, innamorato di una donna: l’odio-amore di Caracas per Rosa fa da controcanto all’odio-amore di Ettore per Napoli.
Durante i loro incontri, in un continuo viaggio fra passato e presente, Ettore e Caracas si raccontano: squarci di vita e di disperazione nei racconti di Caracas, e ricordi della Napoli dal dopoguerra in poi in quelli di Ettore, ancora divorato da una passione politica che si scontra con le delusioni imposte dalla realtà.
Realtà che ora propone il volto sfigurato di una città sommersa dai rifiuti, costellata dai falò dell’immondizia che brucia, percorsa dalle manifestazioni di chi chiede il cambiamento.
Indignazione e delusione ma anche speranze e sogni: nella nuova dimensione multietnica della zona Ferrovia “avevo la sensazione di passeggiare se non nel futuro, ai suoi margini”.
Gli immigrati stanno prendendo il posto della vecchia “plebe” napoletana, e la loro miseria, ancora senza nobiltà, diventa il nuovo volto di intere parti della città. I due protagonisti, tanto diversi anche per età, condividono lo stesso bisogno di rinascita, rinascita che cercano in quella realtà pesante in cui si sente il marcio ma in cui ciò che si vede è ciò che è, perché “ in quell’inferno c’è gente più vera che altrove”. Nei “bassifondi” le cose sono come sono, senza mistificazioni. E gli occhi di Ettore e Caracas sono accesi da una speranza di un mondo migliore che si potrebbe ancora realizzare sapendo stare accanto alle miserie di questa terra. Infatti, anche se la consapevolezza del degrado cui si è ormai giunti, un degrado che sembra senza prospettiva di risalita, potrebbe far pensare alla rinuncia, in realtà tutto ciò che la ragione vede non porta necessariamente alla rassegnazione. Anzi, fa sentire più forte la necessità di una “resurrezione” personale e collettiva.

Si chiama Ettore. Ha i capelli bianchi da un po’, ormai. Ne ha di storia alle spalle. E di battaglie. E di libri. Ora è nel suo ufficio che si affaccia su una grande piazza. Siede al computer. Poggia le mani ai lati della tastiera, e si dice perentoriamente: “Basta rinviare”. E così comincia a battere sui tasti. Ma si ferma spesso. Forse non è contento di quanto va scrivendo. Cerca a lungo la parola giusta. Ogni tanto stampa una pagina, la rilegge, fa qualche correzione a penna, ma poi la appallottola, facendola finire nel cestino, accanto alle altre.
Quindi, sospendendo per il momento i tentativi, si alza e va alla finestra. Guarda la geometria fredda di Piazza Plebiscito. Sì, siamo a Napoli, in una qualche sera di qualche tempo fa. Mentre guarda la piazza vuota (in realtà siamo ancora al crepuscolo), comincia a pensare e ricorda. Ricorda – forse – qualche momento che ha scandito questo suo ennesimo ritorno in città, questo ennesimo, fallito, tentativo di riannodare la sua vita a quella della città.
“Che ti succede fratello”, ricorda questa frase, ricorda l’episodio che gli è stato raccontato dall’uomo dalla testa rasata, un cinquantenne “molto di destra” che gli ha fatto da guida in questo ritorno in città.
Era sera, anche quella volta, e l’uomo rasato, Caracas si chiama, s’era imbattuto in un uomo disteso in terra su un marciapiede di Napoli, nei dintorni della stazione. Sta tremando, quell’uomo, con la testa su uno zainetto dal quale spunta un giornale arabo, e si tiene un fianco con le mani imbrattate di sangue. Caracas si siede accanto al ferito, che gli chiede:
“Sei un uomo buono: sei un cristiano, un musulmano?”
Allora Caracas risponde:
“Diventerò presto musulmano”.
Non importa ora come va a finire, o meglio conta per il povero tunisino soccorso da Caracas, in quella città multiculturale che è diventata Napoli e che Caracas, nato in Venezuela da napoletani e poi tornato da straniero nella città dei suoi, conosce perfettamente.
Uno strano naziskin, che se ne va in soccorso di chi ha bisogno. Così gli era stato presentato, quando l’aveva conosciuto.
A proposito, quando l’aveva conosciuto?
Un giorno Ettore se ne risale da Piazza Trieste e Trento verso via Toledo (forse ha appena lasciato il suo ufficio nella vicina Piazza Plebiscito?) per sbucare in Piazza Dante. Nella grande piazza, una volta parcheggio d’auto come Piazza Plebiscito, dei ragazzini giocano al pallone.
“Ciao Ettore, vorresti conoscere un naziskin?” gli chiede un amico avvicinatosi improvvisamente. Ettore riconosce chi l’ha chiamato, a fianco del quale vede l’uomo rasato, per l’appunto Caracas.
“Stasera chi hai salvato?” chiede allora l’amico di Ettore a Caracas, e prosegue sempre rivolto al venezuelano: “Vieni che ti presento una vecchia cariatide comunista”.
Ecco, così le presentazioni sono state fatte, mettendo subito le cose in chiaro. Il naziskin e il comunista. I due si guardano interrogandosi ciascuno sull’altro, ma ancora con quella leggerezza di un primo incontro, quando ancora non si sa quanto quell’incontro sarà importante – e se lo sarà. E certo Ermanno non sapeva in quel momento, in quel preciso momento, che quella era la persona che cercava per reimmergersi in quella che era stata la sua città.
L’amico, rivolgendosi a Ettore, aggiunge:
“Sai, Caracas frequenta i peggiori posti di Napoli, prostitute, immigrati, islamici, va facendo fotografie… ah, si chiama così perché viene dal Venezuela, è nato proprio nella capitale, ma i suoi genitori erano napoletani…”.
E quando Ettore gli chiede dov’è che va, Caracas lo informa:
“Stazione centrale, Piazza Principe Umberto, Porta Capuana, il Vasto, la Duchesca. Non c’è notte senza ammuina”.
E quando poi Ettore gli chiede se può accompagnare anche lui, Caracas pronto gli dice che possono cominciare anche l’indomani sera. Ettore però, preso da un dubbio improvviso, gli fa notare che lui, a ottant’anni, non ha più l’età per scorribande notturne.
“Vicino a me non devi aver paura di niente”, lo rinfranca allora il venezuelano. E aggiunge, mettendosi una mano sul petto, come a garantire per se stesso:
“Io, sai, alla Ferrovia conosco tutti”.
E così davvero cominciano a scorrere insieme la città. Le prime tappe riguardano due case di Ermanno, anche se una delle palazzine, quella di Piazza Cavour, non esiste più: mentre l’altra, in Piazza Principe Umberto, è ancora al suo posto. Anzi, qui Ettore, qui, in qualche modo alle origini di se stesso, di se stesso in quella città, nel vedere gli stranieri che ora popolano quella sua piazza, ha una agnizione fondamentale:
“Questa è una città-spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa stessa straniera via via che integra lo straniero, lo divora. Perciò la mia piazza di oggi non è troppo dissimile da quella di ieri, perfino le voci si rassomigliano e può accadere anche, come poco fa, che il nigeriano gridi al nigeriano “ma tu che cazzo vvuò?”. Rimane un attimo in silenzio, e poi aggiunge: “Però ora il degrado si è fatto smisurato; la sera non era affatto così immensa, aveva dimensioni molto più domestiche e prevedibili… certo non mancavano prostitute e femminielli o ubriachi…”.
Caracas ha così cominciato a fare da Virgilio a Ettore: il napoletano ha bisogno dell’immigrato per (ri)conoscere la propria città, nel cui ventre vanno aggirandosi sera dopo sera.
Caracas si preoccupa per le troppe facce di Napoli che Ettore, benché appunto napoletano per nascita, non conosce: “Tu che vuoi scrivere continuamente di questa città, devi conoscerla davvero in tutti gli aspetti”, gli dice con rimprovero, accompagnandolo una sera tra la nuova fauna notturna di Piazza Garibaldi e della stazione, tra gli immigrati accampati lì a trascorrere un’altra delle proprie notti.
“A proposito, ma tu dove abiti?”, aveva chiesto allora Ettore a Caracas. Ma Caracas non ha casa, vive ora qua ora là, ospite spesso di qualche vecchio amico. Però ha uno “studio”, per dir così, un sottoscala a Posillipo, dove talvolta resta anche a dormire, anche se però è scomodo.
Ma cosa cerca Ettore in quella città che ha lasciato e dove non può fare a meno di tornare? E perché frequenta Caracas? Con lui – è vero – finalmente gli riesce di lasciarsi andare, con lui impara, lui gli spiega l’inferno nel quale scendono e, soprattutto, con lui – ora può dirlo – ha ritrovato la propria città, le proprie origini, i propri ricordi. Con lui è tornato in quei posti della città dove non riusciva più a scendere da solo.
Nei loro andirivieni, spesso Ettore e Caracas fanno sosta all’Aladin di Piazza Garibaldi, un locale frequentato da arabi e da altri stranieri.
Qui una volta aspettano Djamel, il proprietario, un algerino che ha avuto una grande importanza nella conversione di Caracas. Caracas vuole che Ettore lo conosca. Nel frattempo, davanti a fumi di tè alla menta, il naziskin comincia a parlare di sé e della sua conversione all’Islam. Quella che era stata a lungo un’idea sotterranea è poi emersa con piena forza dopo il vero shock per le immagini da Abu Ghraib, quelle immagini che hanno sconvolto tutto il mondo.
E ora è quasi cosa fatta: dovrà comparire a breve davanti all’imam.
Ettore, sorpreso (non pensava che le cose fossero ormai così avanti), chiede a Caracas come Allah si concili con la donna, l’amore e la sensualità. Si, perché Caracas, che ha scelto Allah, si porta addosso Rosa, la sua donna, l’odore del suo corpo che sa di menta. E Caracas beve litri di tè alla menta.
Ed è così che Caracas comincia a parlare di Rosa La Rosa, di quest’amore conteso da un rivale invincibile: la droga. Il suo amore per Rosa l’ha trasformato, facendone addirittura un complice, disarmato e umiliato davanti al bisogno di droga di lei. Tanto da scendere lui in strada a procurargliela, avendo a che fare con gli spacciatori. Gli racconta di un giorno in particolare, di lei sconvolta in casa, tanto disfatta da non essere in grado di scendere in strada, e lo prega di andare lui, e lui deve andare, non sa tirarsi indietro. Ed eccolo quindi a tu per tu con lo spacciatore, in un vicolo di quella maledetta città. Si, è così, proprio così, il trasgressivo Caracas, colui che frequenta emarginati e sbandati, ha però un suo codice d’onore che gli fa ripudiare la droga. Ma davanti all’amore per Rosa, anche questo codice va a farsi benedire e Caracas rinuncia a se stesso. Sta ancora parlando di Rosa La Rosa quando finalmente – è in ritardo di un’ora – arriva Djamel.
Caracas lo presenta in modo solenne a Ettore e i tre si spostano nella sala superiore dell’Aladin, dove campeggia un grande televisore al plasma. È sintonizzato su un’emittente araba. Per il momento, Caracas e Ettore rimangono di nuovo soli, seduti a un tavolo tra cucina e televisore, per cui possono assistere, solo spostando la testa, ai due spettacoli, quello in televisione e quello della preparazione del cibo e dei piatti. Dal televisore arrivano immagini di carri armati e di case distrutte e, ancora, di Abu Ghraib. Per un po’ Caracas non distoglie gli occhi dal televisore.
“Maledetti yankee”, sussurra a denti stretti.
Anche Ettore però si irrigidisce sulla sedia e guarda disgustato.
E finalmente Djamel li raggiunge.
“Il nostro Caracas”, dice l’algerino quando è seduto con loro, “cercava Dio: io l’ho soltanto aiutato a trovarlo”.
“Come sei capitato in Italia?”, chiede allora Ettore a Djamel.
“Il caso”.
“Ah, il caso!” ripete Ettore: gli sarebbe sembrato più naturale sentirsi dire da un musulmano: “Il Destino”.
Intanto la sala va affollandosi, e va facendosi insieme più buia. Ci sono solo un paio di donne, e sono bionde. Ma Djamel, senza far caso alla gente, continua a parlare del “percorso spirituale” di Caracas. Le parole si susseguono alle parole tra le tante altre che si alzano dagli altri tavoli, e non di tutto si può conservare memoria.
Così, Ettore salta a un risveglio all’alba nella sua stanza d’albergo a Santa Lucia. Perché affiori questo ricordo non può dirlo. Nella selezione naturale dei fatti, balza ora questo. Ecco, è in piedi davanti alla portafinestra. L’azzurro pastello del cielo va screziandosi di rosa, e si intravedono il Vesuvio e la penisola sorrentina. Il mare è calmo. Subito davanti il Castel dell’Ovo e il Borgo marinaro. Immagini stucchevoli da cartolina, si dice Ettore. Ma spostando lo sguardo, compare di lato un grosso cumulo di rifiuti. Ora siamo fuori della cartolina!
Il sole è già sorto, Ettore prende il telecomando e accende il televisore, un telegiornale trasmette immagini di una manifestazione “contro” i rifiuti, una di quelle delle quali la città era costellata in quei giorni.
“No, in questa città non si può restare”, si dice allora tra sé Ettore, e ricorda la proposta che gli hanno fatto quelli della Fondazione che presiede in città (è questa nomina che l’ha portato al nuovo soggiorno a Napoli), e poi lo stesso Caracas: prendere un appartamento in affitto, segno di una residenza più stabile, di una dimora effettiva.
A Caracas aveva detto: “La verità è che io non sento più di appartenere a questa comunità. Tra me e questa città è successo qualcosa di irrevocabile. Ormai io sono uno straniero, anzi, un rinnegato che si è fatto straniero. Il che non toglie che io possa ‘sognare’ di tornare. Ma appunto è un sogno. Che cosa non sopporto di questa metropoli? Soprattutto la falsa tolleranza, per cui tutto è cosa ’e niente. Uno scippo: e cosa sarà mai! Non si scippa forse anche a Milano o a New York! Questo si dice e si tira avanti. Perché siamo così?, quante volte me lo sono chiesto. La Storia, allora, o lo strapotere di una classe avida e cieca? Così, come dice Cioran, dobbiamo imparare tutti a essere perdenti. Ci sentiamo tutti perdenti, Caracas? Siamo stati tutti travolti dalla rete di correità piccole e grandi, consapevoli e inconsapevoli, che sta facendo di Napoli la città che non si può più amare”
Alla ricerca della sua Napoli (perché questo è il problema: il rapporto con questa benedetta/maledetta città), Ettore un giorno va allora con Caracas su per la Scala a San Potito. Ora sulla spinta di un’altra associazione. Ettore pensa che davvero Caracas assomigli anche fisicamente al suo amico scrittore Luigi, e glielo dice, aggiungendo:
“Sembra quasi che lui, da comunista qual era, si sia incarnato in un naziskin di oggi per autopunirsi”.
“Cosa vuoi fare, provare a convertirmi?”
Scala a San Potito è una serie di rampe, chiuse tra due file di palazzi, che iniziano di fronte alla Galleria Principe di Napoli, a lato del Museo Archeologico, rimaste uguali a come erano ancora nel dopoguerra, al tempo degli americani. Una fauna umana di diseredati abitava quelle rampe e a loro, e alla loro vita, aveva dedicato il suo romanzo Scala a San Potito Luigi Incoronato, un Caracas di sinistra “colto e disarmato”. L’umanità sofferente che si presentava a Incoronato era quella del popolo napoletano. Ora, invece, Caracas si muove nella massa diseredata degli immigrati. Questa la mutazione genetica subita nel frattempo dalla città che, con soggetti diversi, vede ripresentarsi gli stessi problemi di sempre.
Ridiscendendo verso il Museo, si avviano alle strisce per attraversare. Di colpo una frenata e Caracas tira per il braccio Ettore che è ormai a un palmo dall’auto che lo stava per travolgere.
Caracas rivolge uno sguardo irato al conducente. Ettore, una volta che sono al di là della strada, si gira a guardare le strisce. E dice:
“Guarda queste strisce. Sono quasi del tutto cancellate, ridotte a una macchia. Non hanno più alcun potere di dissuasione. Chi mi protegge, allora? Pensa ai vecchi: quelle zebre sono per loro un sorriso amico, li confortano, gli dicono di non preoccuparsi. La democrazia forse non è altro che questo: la fermezza di una città nel rivendicare strisce pedonali su tutto il territorio urbano, chiedendone il rispetto”.
Questa inveterata incapacità di darsi regole, e di rispettarle, in fondo, fa parte dell’immutabilità di Napoli, del suo immobilismo. Questa sensazione di immutabilità nel cambiamento, di mutazione nell’immobilità, Ettore la vive in pieno una volta in Piazza del Carmine o Piazza del Mercato.
Un sassofonista ambulante sta suonando Bèsame mucho, e sembra di tornare a un tempo pietrificato: lì pare andare in scena sempre la stessa agonia.
La palazzata Ottieri, questa grossa costruzione, chiude la vista al mare, e quello che era un vitale centro di scambi con il resto del Mediterraneo sembra chiudersi in se stesso, come la città.
“Sai cosa bisognerebbe fare?”, dice allora Ettore a Caracas: “Bisognerebbe abbatterlo questo palazzo, ma nessuno lo farà, né oggi né mai. Ma abbatterlo sarebbe un grande gesto simbolico”, aggiunge con sommessa enfasi. E continua dicendo che così Napoli si riapproprierebbe della sua vocazione marinara, quella che gli americani, con la complicità di Achille Lauro (che, girando le spalle alla sua città, aveva spostato i suoi affari a Genova e al suo porto), hanno voluto negare, facendo di Napoli solo un porto militare, una base strategica a loro uso e consumo nel cuore del Mediterraneo.
Forse non si riuscirà ad abbattere la palazzata Ottieri. Ma qualcosa si potrà ancora fare per questa città? E possiamo abbandonarla del tutto a se stessa? Se tutti disertassero che ne sarebbe? Perciò, nonostante tutto, Ettore era tornato – pensava tra sé – e aveva accettato quell’incarico culturale. Eccolo lì, allora, una sera nella sala del Premio Napoli. La sala è gremita. Lui siede al tavolo della giuria insieme ad altre personalità. Sta leggendo la motivazione del premio e viene chiamato a ritirarlo lo scrittore vincitore, che ringrazia e rilascia una breve dichiarazione. Quindi Ettore conclude con considerazioni politico-civili su Napoli e l’Italia, con ciò che ha sempre pensato, che si è detto con altre persone, che altri magari hanno detto a lui. Solo che ora, per così dire, pensa ad alta voce, e in pubblico:
“Questo premio si tiene a Napoli e in fondo è una scommessa con questa città, ma una scommessa anche con il Paese del quale questa città fa parte. Perché Napoli è un crocevia della vita e della cultura italiana dell’ultimo secolo, un luogo reale e insieme simbolico, tempio della lacerazione e della speranza. E anche se l’Italia (e soprattutto certe forze), può credere di sentire Napoli come un corpo estraneo, come un male radicale da isolare e magari da estirpare, ebbene, l’Italia, questa Italia, deve sempre tornare a riconoscersi in Napoli, vedere segnato dentro il destino di Napoli il proprio stesso destino, le proprie contraddizioni, i propri scatti vitali e le proprie rovine. Senza dubbio, Napoli è diventata da tempo la città dei destini incompiuti, ma questo vale ormai per l’Italia stessa. E così, la difficile arte di decifrare l’eterna notte della città nella quale sono nato, una sorta di notte boreale che davvero non finisce mai, destinata a protrarsi fino a quando non accadrà quella ‘cosa’ miracolosa che rimetterà in moto le lancette paralizzate degli orologi, questa difficile arte occorrerebbe per l’Italia intera. Ma lo so. Lo so bene: la Storia arriva laddove è tutto un popolo a invocarla, con coraggio e determinazione etica e politica”.
Napoli. Dopo il bagno di folla della serata del premio, ha bisogno, però, qualche volta, di percorrerla ancora da solo, anche senza Caracas, di cui ha comunque bisogno, anche se è una presenza che a volte diventa pesante, in quel continuo confronto, a volte scontro.
Napoli. Ettore è in funicolare, e scende a Piazza Amedeo e da lì imbocca via Luigia Sanfelice. Assorto, la percorre scorrendo davanti alle facciate color pastello degli edifici liberty, passando davanti ai giardinetti ricchi di verde che si aprono dinanzi all’ingresso. Cosa fa un passeggiatore solitario? Annota dettagli, si ferma davanti a qualche vecchio balcone in muratura contandone le colonnine a forma di anfora, ispeziona la superficie screpolata di qualche portone in legno massiccio. Si ferma, come una statua davanti a una villa grigia guardando i pini giganteschi del parco con un senso di attesa. Il flâneur ha il tempo che vuole, si dà il tempo che è necessario, in una pausa nella frenesia. Il passeggiatore solitario può soprattutto pensare. Pensare a una donna che inquadra in quella strada, qualche anno dopo la guerra: è un dettaglio, al quale segue un altro dettaglio, la stessa donna su un molo del porto, seduta su una bitta da ormeggio. Intorno relitti e carcasse, sfasciume.
La vacanza del passeggiatore solitario è durata poco. Ecco di nuovo Ettore con Caracas. Sono da Aladin. Mentre fuori piove, prendono un tè verde con tante nocciole che galleggiano nel bicchiere di vetro. Ettore parla della sua avversione al cambiamento, che Caracas condivide. E del mare. Fuori, una grande insegna al neon macchia di rosso il selciato dilavato.
“Accetterei anche una dittatura, pur di avere il mare come l’ho conosciuto da ragazzo. Un mare che nessuno più godrà perché ormai è morto”.
“Accetteresti il fascismo?”
“Sì”.
“E il comunismo?”
“Sì!”
“E un regime islamico?”
Ma a questo punto, Ettore lo manda a quel paese.
In fondo, il senso d’immobilismo, di proiezione fuori della storia, di staticità astorica o antistorica, appunto, e questa avversione al cambiamento sembrano in contraddizione. Cosa vuole Ettore, in fondo? E cosa vuole anche Caracas? Ma soprattutto Ettore, è suo lo sguardo che si posa su questa città. Forse lui non vuole una Napoli che rimanga fuori dalla storia. Ma pur rimanendo fuori dalla storia, non è che la città, d’altro canto, non cambi, o meglio non sia cambiata. Ma certi aspetti del cambiamento sono inaccettabili. Quale, innanzitutto? Appunto, quello che ha negato a Napoli il suo porto. Napoli è immobile perché è uscita dalla storia ma, ossimoricamente, è anche cambiata: è cambiata perché ha rinnegato il mare e il porto. Ed è proprio questo cambiamento che, negando il passato, ha negato anche il futuro, ponendola fuori dalla storia, dalla storia che è sviluppo nella continuità.
Ecco, la chiave di tutto è sempre lì. Ed eccoli lì, al porto di Napoli. Ettore e Caracas. Lì dove Ettore era andato con la donna di via Sanfelice, tanti anni prima: nel ricordo. Veramente, anche ora è nel ricordo. Con la donna del dopoguerra si era, allora, in un ricordo nel ricordo.
Dunque. Caracas in un monclaire nero, con il cranio lucente sotto un sole invernale, attende Ettore all’imbocco del molo Carmine, al di qua delle transenne del posto di blocco pedonale, e insieme si avviano verso il grande piazzale da cui si stacca il vecchio molo di pietra nera. Tutto sembra più sereno in questo lucente pomeriggio invernale. Passano davanti alla diroccata palazzina liberty rossa dei Magazzini Generali. Da un lato il mare e dall’altro le colline e San Martino che campeggia dalla collina. In silenzio i due percorrono il molo, in un un’acqua oleosa galleggiano rimorchiatori e imbarcazioni decrepite. Costeggiando altri magazzini abbandonati arrivano quasi alla fine del molo. Ettore si ferma davanti a un grosso ammasso di catene arrugginite, alto almeno un paio di metri.
“Quelle catene”, dice allora a Caracas, “mi riportano indietro alla giovinezza, a una passeggiata con una donna di tanti anni fa. Lo vedi che il dopoguerra in questa città non è ancora finito?”. E allora chiede a Caracas di tornare per fotografare da vicino quelle catene, fino a cogliere il cuore stesso della ruggine.
“Lo farò. Lo giuro”, risponde Caracas, guardando con occhi radiosi.
In fondo al molo un vecchio sta pescando con una lunga canna nell’acqua nera.
Al ritorno s’imbattono in un naviglio tirato in secca. È meno di una carcassa, sfondato in più punti, senza eliche e motore. Sulla fiancata in grossi caratteri bianchi c’è scritto: fatevi i cazzi vostri.
Di colpo, quando sono di nuovo davanti alla palazzina liberty, senza sapere perché, Ettore d’impeto dice: “Sono un ebreo, Caracas, o è molto probabile che lo sia. Uno di quelli con i quali ce l’avete voi naziskin”.
Quando si seggono davanti a un bar, Caracas, che ha fatto finta di nulla finora, risponde finalmente:
“Al solito, vuoi convertirmi alle tue idee. Non credo affatto tu sia ebreo”.
Ettore si massaggia le dita congelate per il freddo, mentre Caracas continua a guardarlo con occhi spalancati, interrogativi. “Non so neanch’io se lo sono. Ma il nodo che sta venendo al pettine tra noi non riguarda la religione e tantomeno la politica. È piuttosto di carattere morale, riguarda la passione per la verità”.
Dopo aver guardato di nuovo la punta bianca delle sue dita, e aver stretto il bicchiere con il punch per riscaldarsi, Ettore riprende:
“Tu non sai cosa sono state le persecuzioni degli ebrei, il nazismo e il fascismo. Hitler e Mussolini non hanno scherzato. Non posso credere che se tu avessi visto tutto questo, diresti quello che dici. Quella gente mica era schierata dalla parte dei deboli, dei perdenti, quelli che dici di amare tu! Quella gente voleva una sola cosa, il potere per l’Occidente ariano. Quella gente nelle camere a gas… se avesse potuto, non ci avrebbe mandato solo gli ebrei, ma anche gli islamici, anche uno come te!”.
“Avevo pensato che un giorno mi avresti presentato il conto”, mormora Caracas.
Allora Ettore si alza di colpo:
“Ho freddo, muoviamoci, camminiamo”.
Andando Ettore si appoggia al braccio di Caracas, come a dire che non ha alcun astio nei suoi confronti, e che anzi lo apprezza per quello che fa. Ettore riprende a parlare di questi crimini nell’Occidente che non possono essere taciuti e sminuiti. Ma Caracas se ne risente di nuovo:
“Tu conosci l’arte di imbrogliare la gente. Io so che adesso mi stai imbrogliando, ma io non voglio essere imbrogliato da te”.
Intorno il piazzale vuoto, attraversato solo da un ciclista lontano.
Continuando a discutere, si ritrovano sul tratto, interno allo Scalo, tra via Marina e le prime strutture portuali. Camminando in fila indiana sullo stretto marciapiede, mentre rade auto sfrecciano da un lato, riescono a vedere dall’altro lato torri multicolori di container cinesi. Il porto non è più in mano agli americani?…
Lo si vede infine bene chi sono quelli che ora popolano la città. Anche alla stazione si può trovare la chiave di tutto: non per il passato negato, ora, ma per un futuro che forse si apre.
Napoli Ferrovia domenica mattina, più che mai donna: sotto la grande pensilina della stazione, domestiche, infermiere, badanti, cameriere di ristoranti, cuoche, bambinaie. Parlano tante lingue ma alla fine s’intendono grazie all’italiano appreso, o addirittura si parlano nel dialetto napoletano (come era stato quella sera, nella sua Piazza Umberto, dove davanti gli erano passati due nigeriani che tra di loro s’erano parlati in napoletano). Si incontrano, si salutano con un bacio sulle guance, prendono un caffè o un cappuccino e se ne vanno in giro per la Ferrovia. Tra di loro, quella domenica mattina, anche Caracas e Ettore. Si muovono tra porta Capuana e la Pretura, fino ai banchetti di frutta e verdura di Sant’Antonio Abate.
Scendendo da corso Garibaldi, già quasi alla piazza, l’atmosfera cambia passando dalla bellezza alla tragedia: droga prostituzione povertà. In questa zona di transito, Caracas riprende a parlare di Rosa La Rosa, di quella volta che avevano pensato di sposarsi. Erano addirittura cominciati i preparativi nuziali, e Rosa sembrava nata di nuovo. Aveva ripreso a truccarsi e a vestirsi bene. Era di nuovo una donna attraente, orgogliosa della propria bellezza. Cantava anche, di tanto in tanto, con una voce calda che era stata una scoperta per Caracas, e fonte ulteriore di speranza. Cantava gli U2: One man come in the name of love / one man come and go… Era Pride, la canzone di Bono e degli U2, appunto. “Avevamo comprato anche le fedi”, aggiunge Caracas…
È come se i due stiano compiendo una specie di giro del mondo attraversando continenti e secoli, e così anche i ricordi rispuntano fuori. Eh sì, piazza Garibaldi soprattutto la domenica mattina regala brividi universali: è in atto una vera mutazione biologica della città con immigrati di centodiciannove nazionalità. L’esperienza è irripetibile: non c’è un’altra piazza-mondo simile. Così composita, febbrile, sporca, affabile, pericolosa, rappresentativa e premonitrice. Eravamo nel futuro, o almeno in prossimità. Appunto.
“La nostra salvezza, se ce n’è una,” dice Ettore a Caracas, “comincia da qui, perché è arrivato il momento di rinnovare il sangue nelle nostre vene, di annacquare un’etnia sempre più segnata dalla passività, dalla recita e dall’inganno”. La salvezza, la speranza, la rinascita. Forse perciò era ripuntato quel ricordo di speranza e presunta salvezza di Rosa La Rosa.
Proprio in quel momento si vengono a trovare davanti a un piccolo manifesto affisso al muro. Ettore comincia a leggere ad alta voce il primo punto di una sorta di decalogo:
“Noi, cittadini napoletani, sia di remota che di recente anagrafe, diciamo a quanti sono alla ricerca di una nuova patria: le porte della nostra casa comune sono aperte; tutti coloro che vogliono farsi a loro volta napoletani sono i benvenuti…”
Al che Caracas: “Ma queste parole le hai scritte tu: vuoi che non lo sappia?… Insomma, per quale ragione hai deciso di dimetterti?”
“Caracas, si tratta di un sogno: Napoli, metropoli meticcia che cuce insieme tutta l’umanità, un’infinità di idiomi! Vorrei che Napoli si aprisse a un’accoglienza illimitata, ma questo non significa caos. Porte aperte a tutti, ma a precise condizioni. Capisci Caracas di cosa sto parlando: la città di Carlo d’Angiò che si fa realtà, finalmente padrona di se stessa e del suo mare… Solo così può risorgere. E io credo nelle resurrezioni: l’uomo è fatto per risorgere continuamente, come tutto del resto a questo mondo.”
“Sì, è un progetto. Ma dov’è il condottiero e quali sono le truppe?”, e si lascia andare a una risata di scherno.
E, poi, ancora più aggressivo:
“Insomma, parli di resurrezione, vuoi dirmi allora perché ti dimetti?”
“Ma perché state tutti a farmi questa domanda?”
“Con me puoi aprirti. Sono una specie di te stesso e sarebbe assurdo prendere una decisione così importante senza parlarne con sincerità tra sé e sé”.
“E va bene. Ci sono tanti motivi, ma uno in particolare mi tormenta ora di più: il fatto che la Campania sia diventata la pattumiera d’Italia. La camorra si è arricchita enormemente facendo del nostro territorio la discarica per tutti i rifiuti tossici del Nord. Sono sconvolto. Io non ne sapevo niente, ma non ne sapevano nulla neanche gli amministratori pubblici? Eh no, non posso crederlo. Hanno lasciato correre, hanno nascosto, hanno mentito. Avrebbero dovuto scatenare l’inferno e invece non hanno fatto nulla. Perché? Per non perdere il potere? Per paura? Per inettitudine? Ma nessuno è innocente, a cominciare dai giornalisti, che avrebbero dovuto indagare, fare inchieste, editoriali, denunce. Insomma indignarsi e dire a tutti l’unica verità: Napoli, sputacchiera d’Italia… E così tutti gli intellettuali: chi li ha sentiti? Una sorta di omertà collettiva ha coperto tutto. E mi chiedi ancora perché mi voglio dimettere?”
“Ma così stai disertando”, dice Caracas.
“Ma anche tu non parlavi di andare via, di andare a lavorare in Tunisia?… Comunque, forse a questo punto le nostre strade divergono”.
I due si avviano in silenzio, e distanziati, verso il mercato della Duchesca. Qui li accoglie una babele di lingue, confusione, bancarelle ovunque fitte di compratori. È il suk più a Nord del Mediterraneo. Facendosi strada tra i corpi Ettore si aggira nella piazza, spaesato e incuriosito. A un certo punto si guarda intorno cercando Caracas.
Ma Caracas non c’è più.
Dove sarà finito Caracas. Pensa a questo Ettore, mentre è lì, nel suo ufficio a Piazza Plebiscito, nello stesso momento in cui lo abbiamo visto all’inizio. E’ vicino a quella finestra, dove ha rivissuto quel periodo napoletano. Caracas; la Fondazione; la città.
Nello stesso tempo Caracas è appena tornato a casa; lei se ne sta piegata in due davanti alla porta del bagno, come pietrificata sotto l’effetto di una dose eccessiva di “veleno”. Caracas seduto sul bordo del letto la guarda e dice: “Rosa, non credi che sarebbe mio dovere ucciderti, strapparti almeno così a questo tuo inferno?” Ed estrae il coltello dalla tasca del giubbotto. Rosa però è sempre lì immobile, sorda, senza più alcuna capacità di reazione. Potrebbe davvero avvicinarsi lì, e infilarle più volte il coltello nel costato, e lei non muoverebbe un muscolo. È una cosa, lei, in quel momento, non è più un essere umano. È una cosa, ormai.
Caracas rimane per un po’ con il coltello in mano, pensando a se stesso e alla sua debolezza nei confronti di lei. No, non l’avrebbe uccisa, né ora né mai: una cosa è immaginarlo, altro farlo. Rimette il coltello in tasca con un gesto come se lo stesse gettando in fondo al mare, per sempre. Se ne rimane sul letto, Caracas, sconfitto, pieno della propria disperazione, svuotato dalla propria impotenza.
Non è riuscito a salvarla: non gli resta allora che scomparire.
Si alza, raccoglie le sue cose e va verso la porta. Lì però si gira improvvisamente. Estrae la macchina fotografica dallo zaino e le scatta una foto mentre lei è così: discinta, morta, pietrificata.
Nei giorni successivi Ettore cerca Caracas. Va nei posti dove erano soliti andare insieme. Lo cerca inutilmente al cellulare. Vuole almeno salutarlo prima di partire. Ma niente di niente. Caracas sembra scomparso in quella città di cui conosce ogni angolo, risucchiato per sempre in un buco nero spaziotemporale. Una sera girando per una stradina, improvvisamente il buio è squarciato dalle fiamme cui sono stati dati i cumuli d’immondizia, con il riflesso delle lingue di fuoco sulle auto, sui vetri delle case. Ettore rimane impietrito, le guance illuminate dalle fiamme. Napoli brucia…
Ettore è di nuovo nel suo ufficio a Piazza Plebiscito, nello stesso momento in cui lo abbiamo visto all’ inizio. È alla finestra. Sta pensando…
D’improvviso sente delle voci, ma non può vedere le persone. Sono due ragazzini, un maschio e una femmina che stanno litigando, con voci animalesche.
Lei urla: “Bucchinaro, tu sì ‘nu bucchinaaaaro”.
La sua voce sembra arrivare diritto dall’inferno. Lui invece, senza gridare, ma con voce cavernosa, le dà della “zòccola”.
Finalmente entrano nel suo campo visivo: lei corre e lui dietro che perde terreno pur continuando sempre a seguirla, senza riuscire a staccarsene per andarsene altrove. Continuano a gridare nell’immensa piazza vuota.
“No, non sono le parole che mi danno fastidio”, dice tra sé e sé Ettore, “ma il suono, quel rumore che avvolge le parole e le trasforma in una lingua vissuta. E nella bocca di ragazzi ancora adolescenti. Mi vergogno… Ma è la parlata che sentivo anch’io da ragazzo, con quelle stesse “a” spalancate come voragini?” Con quella “u” rauca da lupi? Con quella “b” strisciante come un serpente viscido? O sono suoni nati solo di recente modulati dal degrado di massa? No, non posso restare in questa città. Devo, devo rinunciare a questo incarico che forse ho accettato solo per stanchezza, per non riuscire a dire di no. Me ne andrò, sì, e tornerò a essere l’emigrato di prima, l’adottato, lo sradicato. Me ne vado perché questa città mi fa orrore nello stesso tempo in cui mi affascina; mi fa orrore per come sempre è stata e per come è cambiata. A cominciare dalla parlata, appunto, che non è più la stessa”. Ecco, chissà perché, pensando a questo amore impossibile, a Ettore torna in mente Rosa La Rosa. Sì, bella Rosa La Rosa. Gli viene in mente Caracas che, in un bar, gli mostra una grande foto a colori di lei. Rosa è davvero molto seducente. Si possono senz’altro comprendere le follie compiute per lei da Caracas, anche se Caracas non sa se la parola “amore” sia quella giusta per indicare ciò che prova per lei. Una donna spaccata in due, Rosa, con una parte luminosa e un’altra oscura, perversa.
Sì, questa è l’illuminazione che ha creato l’associazione di ricordi.
Sì, Rosa è Napoli.
Finché, ormai è completamente sera, chiude un foglio in una busta con su scritto Dimissioni, la mette sulla scrivania ed esce.
Attraversa Piazza Plebiscito andando verso il Bar Gambrinus e costeggiando Piazza Trieste e Trento. Intravede qualcuno in mezzo alla folla del passeggio serale, una figura slanciata dentro a un paio di jeans neri attillati con una cintura vistosa intorno alla vita…
Caracas?
Con vigore Ettore lo prende da un braccio e alzando la voce lo chiama:
“Ehi, Caracas”.
L’uomo si gira infastidito… uno sconosciuto.
“Mi scusi”, dice allora Ermanno, gira sui suoi passi e ritorna in Piazza Plebiscito immerso nei suoi pensieri.
È solo, al centro della piazza vuota.

Franco Jannuzzi e Enzo Rega
dal romanzo di Ermanno Rea