Tre figli, tre padri

“Vedo mio padre in penombra, seduto in fondo al tavolo in camera da pranzo, una luce opaca lo sfigura, sembra come se si fosse nascosto. È il pomeriggio della vigilia di Natale, trangugia cornetti industriali, da solo. È un uomo stanco, vinto. Gira la testa, mi guarda, non dice nulla. Mi chiamano Nero sai pa’? Forse perché sono un negro della vita, come te, un fallito, un miserabile, uno scarto. Li odio tutti, per me e per te. Per tutto quello che ti hanno fatto. Per causa nostra, per i cinque figli che ti sei ostinato a fare, ti sei fatto ridurre così? Per l’ultimo che hai perso e per cui ti divora la colpa? Tu non c’eri quando il bambino ha ingerito una boccetta di psicofarmaci di mamma lasciati per casa senza cura, tu non c’entri pa’. O ti ha triturato l’amarezza? Non sei mai stato riconosciuto, solo umiliazioni e calci in faccia, fuori e dentro casa, eh papà.

Non dico proprio nulla. Lo guardo, mi giro e me ne vado”

“Te ne sei andato e io ti ho odiato. Eppure non ho mai smesso di aspettarti. Non che tornassi a casa, da mia madre, ma che mi riconoscessi, che, per una volta, una volta mi basterebbe, mi facessi sentire importante per te. Ti rifiuto. Mi faccio forte, fingo di non aver alcun bisogno di te, né di nessuno. Quest’attesa fottuta la sento ribollire dentro, l’attesa della tua attenzione. Accadrà, accadrà, si accorgerà di me, mi conforterà, non mi chiederà ancora di sostenermi da solo, sempre da solo, con la sua indifferenza. Mi hai dimenticato? Mi stai mettendo alla prova? Vuoi che diventi un uomo così, nella privazione? Devo indurirmi, devo essere forte come te? Eppure non ti ho mai rinnegato, mai. L’ho detto alla professoressa che ero fascista come te, avrei voluto che mi sentissi, che fossi orgoglioso di me. Almeno una volta, almeno quella volta”.

“Ti guardo mentre dormi, dinoccolato, ossuto, lungo, col nasone sopra ai baffi che aspira l’aria ritmicamente. Lo stesso becco adunco, gli stessi riccioli spessi che hai tramandato sul mio corpo, ossuto, dinoccolato, lungo. Ti guardo e vedo me stesso tra trent’anni. Tremo all’idea di diventare uguale a te. Mi dimori dentro, sono già te e non vorrei. Porto questo nome altisonante quanto il tuo, come un destino. Ti guardo e sillabo in mente: Edmondo, mio padre. Ho visto cosa hai fatto a mia madre e strapperei questo amore che sento per te, e che non confesso, con le mani. Non c’è scelta nei legami, c’è solo una ineludibile condanna. Vorrei dimenticare e non posso. Tu sei la causa della malinconia in cui trascino la mia esistenza, tu sei ciò a cui non potrò sottrarmi. Non saprò dirti quanto siamo legati e sarò schivo per difesa, silente e schivo. Perché ho bisogno di proteggermi, anche se tu non lo saprai mai.”