Prose

Trentuno agosto

C’era attesa e silenzio. Braccia impreparate ad accogliermi, una casa che non era la mia ad attendermi. Non lo ricordo, ma posso immaginarlo. Riesco a vedere il corpo allora esile di mia nonna muoversi freneticamente senza scopo, il volto increspato e in tensione di un uomo seduto chino su sé stesso; intravedo una ragazzina di quasi diciotto anni, ancora troppo giovane eppure emozionata di avermi con sé. E nuvole scure ad annunciare l’autunno, poi la pioggia fitta a sbiadire le vite degli altri e altri corpi frementi accorrere in vestiti bagnati. C’era l’amore, assurdo, insolito, straniante. Mi amavano perché io c’ero. Immagino non potessero fare altrimenti. Era l’unica cosa che sapevano di me. Oltre questi pochi e falsi ricordi sono incapace di proseguire. Di me e di Lei non so ricostruire niente neppure con lo sforzo dell’immaginazione. Non credo fosse felice. Della felicità aveva già perso il ricordo e di questo le sono grata: di non essere stata egoista verso me. Chiedo di poter riprovare lo stupore di incontrare la luce per la prima volta, il dolore primordiale del distacco, riscoprire come si fa a camminare. Reimparare ogni gesto, dimenticare le parole. Tornare ad amare ogni cosa con la purezza di chi non conosce. Sapere com’era vivere al riparo, potermi riadattare al buio e all’ignoto e non disperare; realizzare che si continua a vivere e a respirare. Ora che il mio respiro è tagliato in due e l’aria è inquinata. Ora che devo ricordare di avere cura di me, di nutrirmi, di sorridere e muovermi nel mondo. Ora che, mi ripetono, sono già grande e non devo rivolgermi ad altri. Ma io non so ancora come si fa a stare qui. A parlare quando non voglio, a trovare la strada se vagando senza meta mi perdo, a tenermi in piedi solo con le mie gambe. Ora che tutti mi conoscono e dell’amore resta qualche barlume che mi illumina di rado e apre il dolore. Il peso della solitudine è nella certezza di non essere più sola – questo viso non conoscerebbe vergogna e io saprei come orientarmi tra la gente; è in questo corpo che non sa mai dove andare, nella mia voce che vacilla e va in pezzi, nel pianto che non ha ragione. Fuori ogni luogo che non conosco e che incontro sembra somigliarmi. Se non a me, all’indefinibile che mi preme sul petto. Anche l’immagine più gioiosa mi sembra nascondere uno struggimento indecifrabile e naturale. Non dico una parola mentre mi parlano. Sposto lo sguardo da un volto all’altro e li scopro così familiari da ferirmi oltremodo. Occhi pieni di compassione che, mentre mi raccontano del mare, sembrano implorarmi: per favore, di’ qualcosa. Sul lungomare l’aria è fresca, quasi fredda. La brezza sulla pelle nuda mi scuote, mi stringo le braccia forse troppo forte, mi fa male la testa per il troppo rumore. Si è sempre impreparati e soli al sopraggiungere del freddo. Passeggio lenta, incerta, come se stessi attendendo qualcosa che tarda ad arrivare. Nessuno, tra chi mi circonda, sta guardando il mare. Neanch’io. Lo cerco ma è come imbattersi contro una parete nera. Ne respiro l’odore, sento che si agita, so che c’è. Non sto cercando il mare, sto cercando qualcuno in questa solitudine popolata di corpi e di voci. Un gatto grigio dorme accucciato su uno scoglio e nulla lo turba; un uomo è rivolto verso il mare ma sembra non vedere niente. Era più bello un’ora fa, quando dal finestrino dell’auto il cielo era tinto di luce e rendeva piacevole anche la fine, mentre pensavo che sarebbe meglio tornare tra qualche tempo, tra sciarpe e cappotti, quando il mare non piace a molti e i tramonti si nascondono permettendo al buio di penetrare lento senza preavviso. Ma oggi è troppo presto e guardo ancora il tempo piegare il giorno sotto i miei occhi sgomenti, fissi su un punto lontano che non c’è ma che vorrei raggiungere. Rincorro le stelle, le luci delle case, le barche che ondeggiano, l’orizzonte indistinguibile. È possibile arrivare fin lì? Mi volto di scatto, con violenza, come se non mi importasse. Non so dove sto andando, rallento per guardarmi intorno. Provo dolore per la ragazza che piange in strada; per il gruppo di amici che festeggia su un terrazzo; per il mendicante che non ho potuto aiutare; per tutti i bambini che non sanno e perciò mi sorridono. Forse sto scappando al luogo indicato dai miei occhi. Quando con coraggio mi alzo e cammino ancora cerco l’equilibrio, nessuno mi aspetta a braccia spalancate alla fine della corsa. Nessuno mi è accanto a sorreggermi, nessuno gioisce di vedermi in piedi. Trentuno agosto. L’anima grida: sono in ogni dolore del mondo. C’era attesa e silenzio. In un giorno che muore, è stata possibile la vita.