Ultimo spettacolo

Sono lì che sto per tirar giù la serranda, alzo gli occhi e lo vedo. È dentro, in piedi, davanti alla sala più piccola, i capelli bianchi, radi, e gli occhiali lo invecchiano, ma io lo riconosco subito. Franco era uno studente modello, all’università; oltre che il mio migliore amico. Non vedo quella faccia da vent’anni, e stavo per rinchiuderla dentro al cinema. A me questo genere di cose non succede mai. Cerco di ricordare se ci sia stato qualcuno sbucato dai bagni all’ultimo secondo, mentre già stavo chiudendo, ma niente: anzi, il giro che faccio prima di andar via in genere è superfluo, perché a quest’ora se ne sono andati tutti. Intanto lui non muove un passo, non dice una parola, sorride: giusto un abbozzo di sorriso, gli angoli della bocca sollevati, giusto il necessario per toglierti il dubbio. Sembra tranquillo. Il sentimento che provo io è quanto di più lontano dalla tranquillità, a questo punto è chiaro che devo dire qualcosa, ma non mi esce niente. Non so da dove cominciare. – Franco! – riesco finalmente a balbettare, – Ti… ti stavo chiudendo dentro! E non mi dici niente? – Mi sento malissimo. Chi sa che cosa gli è successo, in tutti questi anni. Io non so niente della sua vita, e riesco a dire solo questo. Franco tace. Adesso si guarda una scarpa, la testa china. Per un attimo lo rivedo ventenne, nella stessa posa: i capelli biondi, la chioma folta e piuttosto disordinata, a coprirgli quasi tutta la faccia. Eravamo davanti a casa mia, quella volta, e lui guardava per terra per imbarazzo. Era colpa mia, ero stato fin troppo esplicito. Lui, così, non poteva andare avanti. Ma che cosa ne sapevo, io? Era colpa mia, se guardava per terra. Ed è colpa mia anche adesso, se è per questo. O dico troppo, o troppo poco: sono sempre stato un pessimo amico. – Avete anche le patatine, qui? Ho una fame… – di nuovo quel sorriso. – C-certo che ho le patatine. Ho anche i popcorn, se è per questo, se… se preferisci –. Perché stiamo parlando di questo? – Preferisco le patatine, grazie. Ho fatto un viaggio lungo, bisogna che mangi qualcosa. Senti, Francesco… non ti sto a dire come sono finito qui. Tu non farmi domande, okay? Non ho il tempo di rispondere. Lasciami dire quello che devo dire, senza interrompermi –. Ma io non voglio che continui a parlare. Non voglio che finisca di dire quello che mi deve dire. Sto cominciando ad avere paura. – Ieri mi ha telefonato Lucia – non so come fare a fermarlo – per dirmi di Marta. Tu hai saputo? – A questo punto ho la pelle d’oca, e la gola secca. Io non ho saputo nulla, e non voglio sapere nulla. – Franco, perché non esci di lì? Così chiudo e ci andiamo a bere una cosa – azzardo – Se ti ho detto che non ho tempo. Marta era malata da tempo. Non so se avesse chiaro che cosa la aspettava, fatto sta che due settimane fa ha convocato Lucia per parlarle. Sono rimaste per due ore nella sua cucina, e alla fine Lucia sapeva tutto. Di noi, capisci? Certo che capisci. Poi, il giorno dopo… lei non c’era più. Marta, intendo. A Lucia ci è voluto un po’ di più per decidersi a chiamarmi. Ma alla fine l’ha fatto – Io sono ancora là, con la mano sulla serranda chiusa solo per metà, e non riesco a muovere la più piccola parte del corpo. Ha ragione lui sul tempo. Una parte del mio cervello, là in fondo, vorrebbe sapere che cosa è successo a Marta, i dettagli della sua dipartita da questo mondo, ma non ce n’è materialmente il tempo. Volevo molto bene a Marta, altrimenti non sarebbe venuta in macchina con noi, quella notte; Franco era incerto, ma io proprio non ce l’avevo fatta, era estate, in fondo, ed era sabato sera e lei era sola. Marta non ha smesso di fare capolino nei miei sogni, con una certa regolarità: sto pensando di darle un bacio, là sui sedili posteriori, quando arriva la botta. Nei sogni non aggiungo mai nulla a quel che è accaduto veramente: è stato già troppo per poterlo romanzare o inserire elementi simbolici a beneficio del mio inconscio. Casomai c’è sempre qualcosa che ometto, le ore che abbiamo passato a parlare, dopo, io, Marta e Franco, davanti a casa di lei; le ore che nei giorni successivi abbiamo passato a parlare io e Franco, mentre lui già cominciava a bere con regolarità fin dal mattino. Dopo, avevamo smesso tutti e tre di uscire assieme, di andare a correre, ma soprattutto di parlare. E così era nel sogno: nessuno apriva bocca, un film muto. La trama era quella di un horror adolescenziale di infima categoria. Me lo sarei guardato coi popcorn, se non fossi stato addormentato. E anche Franco, ci scommetterei. Sorride di nuovo, infatti, e stavolta so perché: sa che ho capito. Inutile che ci diciamo di Lucia e di quanto ci dispiaccia, di come Franco sia riuscito a sapere dove abita adesso, dei dettagli di come faremo; di quanto, anche, ci divertiremo. Non c’è tempo. Infatti lui esce, io chiudo il cinema e il film comincia: un buon sequel, tutto sommato, che non si allontana troppo dall’originale. È ora di smettere di parlare di nuovo: dopotutto, sono sempre stato un pessimo amico.