Una passeggiata tranquilla

Passeggiando per le umide strade della mia città, la luce dei lampioni…
Piccola precisazione circa il “mia” del rigo superiore: ha una funzione meramente abitativa, pensate che alcune volte non riesco a capire neanche se i miei stessi pensieri siano davvero miei e solo miei. Ritorniamo al racconto iniziale…
Passeggiando per le umide strade della mia città, la luce dei lampioni affannosamente annaspa (o annasposamente affanna, piccola parentesi totalmente inutile per chi ha ancora umori futuristi) nel tentativo di far luce nei vicoli un po’ bui un po’ trasandati, nell’evidente assenza del tepore estivo e dalla tipica oscurità invernale delle quattro del pomeriggio…
Sì, scusatemi, probabilmente vi starete chiedendo qual è il collegamento sintattico, più che ontologico, tra me che passeggio per le umide strade e la luce dei lampioni che affannosamente annaspa o volendo annasposamente affanna nel tentativo di blablabla, ecco vi chiedo di pazientare che, forse, riusciamo a mettere insieme qualcosa di umanamente accettabile. Permettete anche una piccola modifica? Che effettivamente non voglio far essere la luce dei lampioni il soggetto della frase. Quindi, dicevamo, più o meno…
Passeggiando per le umide strade della mia città, sotto una luminosa oscurità invernale interrotta esclusivamente dalla torbida luce dei lampioni stradali, mi accorgo di come lo spazio che mi circonda inevitabilmente influenzi il mio mood (ho utilizzato una parola inglese, ebbene sì, spero possiate perdonarmi o almeno accettarmi) e, di conseguenza, la qualità delle mie passeggiate future e la qualità della mia attuale passeggiata (sto scrivendo ma in realtà sono in un perenne viaggio): gli edifici in cemento dis-armato sono tanto utili quanto aridi, non garantiscono una serenità continuativa alla mia vista ed automaticamente alle immagini mentali che il mio cervello dipinge, portandomi alla luce un menù di scene di vita passate sia realmente accadute sia realmente accadute nella mia testa; gli alberi ormai da qualche mesetto spogli delle foglie marroni, ai piedi dei rispettivi alberi, che hanno un odi et amo insito nella loro natura e nel messaggio che trasmettono al mio subconscio, visto che da un lato questo essere spogli mi riconduce al tema della rinascita, declinabile sotto tutti gli aspetti che vossignoria preferisce, mentre dall’altro lato, il lato un po’ oscuro della situazione, questo essere spogli può essere visto come un inesorabile fluire di padre Tempo, un fluire a quanto pare unidirezionale, nel quale il tema della rinascita citato precedentemente non è altro che una declinazione amichevole, e non umanamente infinita, di una realtà in perenne trasformazione alla quale non sempre riusciamo a conformarci. Un perpetuo scorrere con dentro le persone che popolano le strade che quasi quotidianamente percorro. Mi chiedo ostinatamente quale sia la loro meta, mi chiedo ostinatamente se effettivamente hanno una meta, che sia di una geografia territoriale o di una geografia dell’anima, e il non sapere se sono consapevoli della necessità di una meta per il loro cammino semplicemente mi devasta. In conclusione, quest’odissea urbana mi porta fuori la parrocchia cittadina. E qui mi pare di percepire un’ironia beffarda e metafisica: in questo viaggio quotidiano, perennemente turbato dalla monotonia, da un’immaginazione un po’ irrequieta dello scrittore e dall’assenza di un qualsivoglia motore immobile di aristotelica memoria, il punto di arrivo è proprio l’elemento di congiunzione tra terreno e divino? Qualcuno diceva “quando la felicità non la vedi, cercala dentro”, allora io per sicurezza sono entrato nella parrocchia e vi posso assicurare che la risposta non c’era, ho cercato un po’ in tutti gli angoli, zero. Ho trovato solo altre domande, domande necessarie e domande meno necessarie, che rendono l’odissea ancora più travagliata.
E allora, signori, concludo con una domanda che probabilmente vi sarete posti: ma era proprio necessaria questa passeggiata?