alfredo zucchi

Una possibilità del linguaggio di Alfredo Zucchi: una ricognizione nel lato oscuro

“Nulla esiste, se anche qualcosa esiste, non è comprensibile da un essere umano, se anche è comprensibile tuttavia non può essere comunicata o spiegata a un altro”.1
Il terzo movimento del noto frammento di Gorgia riportato da Sesto Empirico sembra essere uno degli ostacoli che alimentano il bel saggio di Alfredo Zucchi, Una possibilità del linguaggio Pierre Menard come metodo.2 Lo scrittore, napoletano d’origine e viennese d’adozione, intraprende una lotta strenua con i limiti e le possibilità del linguaggio, un incontro-scontro che resta aperto negli esiti ultimi, una analisi linguistica dalle evidenti implicazioni ontologiche. Interrogare il linguaggio è in definitiva una domanda sull’essere e sulla ipotesi di poterlo comprendere e quindi dire. La parola come strumento gnoseologico e non solo simbolico, come ponte per raggiungere “il fondo oscuro delle cose”, una dimora sempre senza luce. Svelare il meccanismo del linguaggio (la sua natura) è una questione di vita e di morte, attiene alla verità, all’esistenza, generale e biografica. L’analisi delle strutture che reggono la parola e la generano non è un’indagine formale bensì esistenziale, le possibilità della lingua sono afferenti a quelle della vita, narrare è scoprire. Tuttavia il linguaggio appare come un labirinto che cita solo sé stesso, che non ha una sostanza “altra” a sorreggerlo, che non conduce verso un altrove ontologico ma solo, sempre e di nuovo, nei meccanismi autoreferenziali delle parole: “il processo di auto implicazione indica un limite: del linguaggio, del pensiero, della rappresentazione”.
Il libro di Zucchi consta di sei saggi, apparentemente diversi tra loro per lunghezza e temi, in realtà uniti da una profonda eco concettuale, come i movimenti musicali di una partitura sinfonica, omogenei nella melodia seppur differenti nel timbro. L’armonia del testo è data non soltanto dal magma contenutistico ma anche dall’elemento stilistico; Alfredo difatti non omette la sua vocazione narrativa neppure nelle vesti del saggista, e l’eleganza formale del testo è la miscela alchemica che rende fruibile i passaggi concettualmente complessi e che amalgama ermeticamente la materia. Zucchi mentre scrive indaga e scuote lo statuto della letteratura, mentre ragiona sulla letteratura “compone”, critica e affabulazione si mescolano, lo scrittore e il teorico dialogano fino al corto circuito.3 La consapevolezza teoretica dilata il campo letterario assumendosi anche il rischio di farlo implodere.
Il primo saggio, Una possibilità del linguaggio, il più esteso e corposo, mette in relazione la follia e la creazione letteraria a partire dagli scritti di Michel Foucault4 in appendice a Storia della follia, entrambe le dimensioni difatti condividono un linguaggio che si auto implica, “la letteratura conquista la regione dove avviene l’esperienza della follia”. La parola letteraria e quella folle sono accomunate da una “riserva di senso”, entrambe riescono a travalicare i limiti rigidi del linguaggio sclerotizzato del senso comune, rappresentano un’alternativa al linguaggio della ragione classica (delimitato e autoritario), sono un altro linguaggio. Il linguaggio della follia è “senza sostegno”, come quello letterario si pone “ai margini della sintassi della ragione”, tenta di dire “l’indicibile, ciò che non ha nome”, sprofonda negli abissi che precedono il linguaggio logico, pone non più “i contenuti ma le condizioni di possibilità dei contenuti”, è un inabissamento nell’origine, nel tempo che precede il dominio ferreo delle strutture del linguaggio della razionalità codificata. La tesi di Zucchi sembra indicare questa via (l’alterità-comunione di follia e letteratura) quale possibilità di superamento dei limiti invalicabili del linguaggio che sempre implica sé stesso, che è mero gioco combinatorio di rimandi perpetui ai suoi stessi segni, privi dell’oggetto e sideralmente lontani dalle cose, dalle essenze. Sembra configurarsi nella prospettiva zucchiana, che associa follia e letteratura, un invito a tra-dire il linguaggio della ragione classica, trappola e dominio, a scuotere le parole, a trasgredire la normatività asfittica della logica, al fine di ottenere “altro” da loro; si intima la necessità di liberarsi dall’illusione realistica della parola che descrive l’oggetto, “il mondo”, che di fatto si rivela un medium inaffidabile, detentore di una credibilità stabilita a priori ma del tutto fallace e ingannevole. Zucchi declina la sua ricognizione nel lato oscuro del linguaggio attraverso esempi vivi di scrittori (Barthes, Cortazar, il maestro Borges, Bolano), scende nel loro “laboratorio centrale”, dove è avvenuta “la fuga incontrollabile del linguaggio verso una dimora sempre senza luce”, in cui si scatena un corpo a corpo per la significazione. Solo lo sprofondamento, “lo straniamento”, può oltrepassare il limite linguistico, e quindi esistenziale, e riportare la condizione della ricerca nella dimensione dell’apertura. “Quando Bolano osserva il vuoto in cui è sprofondato (volontariamente) si chiede “cosa” sia e chi meglio dei poeti è in grado di abitare e nominare la rarefazione simbolica e lo spazio vuoto delle idee senza parole”.
Il vuoto è un’altra ossessione di questi saggi, l’elemento che non c’è eppure in cui tutto si muove, l’assenza senza la quale è impossibile la presenza, la trama invisibile che tutto tiene, “l’origine è una figura vuota e produce il vuoto”. Zucchi indaga la dimensione “impensabile” del vuoto anche attraverso la prospettiva della fisica quantistica, che con la letteratura ha punti di contatto stringenti, difatti come nel testo “ogni elemento è legato all’altro, in una relazione di auto implicazione”, così nel mondo fenomenico tutti i costituenti interagiscono e subiscono un reciproco condizionamento. Allo stesso modo, l’autore non è mai “esterno” all’opera, quale deus ex machina, quanto piuttosto invischiato nella ragnatela testuale che egli stesso si illude di aver creato e di poter gestire, “l’osservatore, il misuratore è parte del processo (misurato)”, cosi come nella meccanica quantistica lo studioso è “dentro” al processo di studio e mai scevro o neutro. Zucchi è autore colto e opera delle incursioni sagaci in territori solo apparentemente distanti da quelli letterari (la meccanica quantistica), poiché la sfida letale con l’anelito alla verità non permette preclusioni, e questo dovrebbe essere un monito per i tanti giovani scrittori che affollano la scena italica all’inseguimento di fatue sirene sperimentalistiche senza sostanza.
Una possibilità del linguaggio vorrebbe anche chiudere dei conti in sospeso, teorici, letterari, biografici, con i limiti delle parole, con il loro odissiaco inganno, con padri maestri ingombranti (Borges aleggia nel testo come uno spettro “venerando e terribile”), ma si ha la percezione che la partita resti aperta, che vinca ancora il linguaggio e il suo ineludibile mistero, che i dadi fossero truccati in partenza rimandando sempre a una regola che continua a sfuggire, un tempo detta verità.
Gorgia aveva intitolato il suo libro perduto Sul non essere o sulla natura, Alfredo Zucchi affronta il nichilismo delle parole tentando una possibilità.


1 DK, 82 B3.
2 Alfredo Zucchi, Una possibilità del linguaggio Pierre Menard come metodo, Mucchi Editore, Modena, 2021.
3 Alfredo Zucchi è anche autore del romanzo La bomba voyeur, Rogas, Roma, 2018 e dei racconti La memoria dell’uguale, Polidoro, Napoli, 2020.
4 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, con in appendice i saggi “La follia, l’assenza di opera” e “Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco”, Milano 2001.