Una vacanza americana
Lilith ubriaca vaghi per la città in panne: il sedici agosto è una malaria che noi affrontiamo da veri perdenti.
Ladybug di luglio col foulard in bianco di Hermès appeso al collo, ti affanni al muro, sudata, sui resti spappolati di una pippata colossale vomiti anche l’anima, come plasma atonale e umido, scivolando a fiocchi dalla sconfitta di Anzio fino alla tua carta d’imbarco. Sei fatta come una scimmietta e sexy come l’anima di una defunta modella. Io assisto alla disfatta, scivolando dagli MTV Awards al tuo ombretto. Succede anche questo, quando si fallisce. O quando in TV si fa una figura di merda. Sui polsi hai il segno dei Chopard regalati dai banchieri, quando eri giovane, fregna e in parte irresistibile. Nel foulard portate tutte – tutte, gallette – i segni dei Perregaux, dei rostri, dei finanzieri. Ora cadi a terra, dai tuoi tacchi di metallo, come nel video dei Massive Attack. Come una canzone degli unni: looking glass, Butterfly di maggio sculacciata dal culto. Come se, ridotta così, potessi ambire a un’altra carriera, a un’altra hit. Una canzonetta in tre quarti, pop: First It Giveth. Lilywhite di maggio, scappellata alla Royal Albert Hall dalla regina in persona. Ti ho visto nei fotogrammi, sette canzoni su sette le hai stonate. Monolocale a Sacramento, una Porsche che ti ha prosciugato il conto: per te che sei nata a Saronno il massimo della vita. Ti ho visto nei lipogrammi: sette su sette erano adenoidi (ma questo lo sai). Col foulard appresso al crollo, Lilith armata con una calibro 9 nei pranzi di gala, penzoli sui Kings: l’abbonamento ai Lakers costava troppo. California, sole, Diet Coke tutto l’anno. Striscia nella sala d’attesa senza fronzoli, alla ricerca di un deejay che non ti placherà, paparazzata in una scatola di scarpe: sirene spiegate. Questa è l’America, baby! Striscione di coca sulla tua pelle butterata, nell’aula senza fronzoli e bulloni, alla ricerca di un toyboy; display per labbroni, spaparanzata in un rantolo a Durango: sparatorie messicane, le peggiori. Quelle spettano anche a noi, esemplari ultimi di talking trash. Fossa comune improvvisata. Lily, a Vegas ci pungono i tafani. Mastoplastiche alla deriva in drappeggi di broccato, nei tripudi di organza alla disfida di Armani. Lollipop, d’autunno ci pungono i caimani, nutrono l’asfalto delle nostre e-mail: abortisti, giungla sotto i piedi del progresso, blefaroplastica d’inganno, come pulirsi la bocca in pulegge di broccato, nei tripudi di organza alla sfilata di Anagni. Ci troveremo tutti a Miami, prima del Superbowl. A bere birra. A mangiare Burger King.
Io non voglio il tuo corpo, non ti spogliare, Lilywhite solforosa, a busto eretto. Ti lascio al prossimo maschio: «Dark hair», mi chiami, «non te ne andare!» Non ho più i soldi per un giro tra le tue mutande. Con impaccio scindo la genetica, gettandola dietro le spalle. Senza pietà mi squarci le orbite, mon amour.
Io non voglio il tuo corpo esacerbato, Lilith. Non ti spoglio, Butterfly, a casaccio secondo la dinamica, ripiegando su lenzuola demoscopiche: I can flirt with the flow, lovely girl. Tu non vuoi me. Non svolgi che un copione, amica mia, nella transitorietà dei transistor. E tu non sogni, scarabocchi, incapace di stare in bolla. Non svolgi che copule, sbrocchi nella precarietà del tuo conto Postal Market. Hai voluto il primo, il secondo, il terzo figlio. Di che cazzo ti lamenti? Venice Beach, la tua amica quest’anno non ci ha invitato, sta stronza. Solo perché le ho morso l’ano quando sei andata a fare la spesa. Lo senti anche tu questo profumo di crema solare? Io non ti aiuto, Lily, malefica mascella. E no che non ti aiuto, Molly Doom, ascella virulenta. E non ti salvo, no, Lilith, lo giuro. E ti raglio addosso. Nessuno verrà, ve lo prometto. Ma dritte, tutte, al bancone del 7-Eleven. Vi urlo addosso, Bye bye my garlic storm! Si avvicinano gruppi di garbati puttanieri. Ululano alla carne, tranne l’attore. Ho paura della sua penna, Primo Carnera. Fear is on my side, canta lo yaguarondi.
Ne ha bruciati più di mille nella sua pipa, Gainsbourg, di boschetti come il tuo.
Estraggo la ghiandola, apro il portone, svanisco nella sebacea memory card dei grattacieli.