Una volta su due

Assimilo ogni crepa, memorizzo ogni riga di vernice segnaletica. Quelle gialle le pesto, quelle bianche le salto. Non incrocio nessuno sguardo. I cani però li fisso. Evito i semafori. Odio i clacson. Non sfioro i pali. Ho paura delle discese. L’ombrello non l’ho preso. Forse non ho voluto. Nell’andamento incostante dei miei passi, una pozzanghera la evito, nell’altra quasi ci affondo. Cado nel baratro una volta su due. Scelgo di assecondare la mia incoerenza, i miei pensieri vulnerabili, ma provando a rimanere io, me stessa. Una volta su due. Nonostante non mi senta in questo corpo, in questi gesti. Una volta su due. Quale parte sono davvero? Percepisco solo Lei: la mia mente. Quando evito la pozza: esangue, pulsante. Quando ci finisco dentro: audace, coinvolgente.
8 Settembre.
8 piani. 8 pozzanghere. 8 ricordi.
8 cani. 8 semafori. 8 pali.
Tanti anni fa la linearità ha deciso di non nascere con me. Io, poi, ho impedito di farla crescere spontaneamente nel corso del tempo. Io o Lei. Così devo pensare per otto volte ad un ricordo prima di tornare a casa. Lei però mi inganna, mi impedisce di concentrarmi senza perdere di vista il totale. Devo contare i cani che riesco a fissare. Ricomincio. Non posso tornare a casa. Sono fradicia. Lo so che la gente mi guarda anche se non la vedo. Lei mi tiene, mi strizza. Io mi ribello ed evito la pozzanghera. Lei mi prende e mi ci butta dentro. Io esco vacillante e sfioro un palo. Torno indietro. Sono convinta di aver annegato l’ombrello. Alla fine, ero tornata a prenderlo, così ho fatto anche gli otto piani. Nell’acqua mista ad asfalto e polvere non lo trovo. Ho le mani sporche. Le maniche sporche. Sento la mia mente cambiare dimensione. Dilatarsi e restringersi. E il mio corpo la segue. Mi sento piccola e poi un gigante. Mi sento svuotare i vestiti e poi implodere. Sto per affogare anche io insieme all’ombrello che non trovo. Un cane, piccolo o grande, non lo so dire, mi lecca la faccia. Io lo fisso. Sono a cinque. No. Tre. No. Quattro. Non lo so. Devo ricominciare. Vado a casa. Salgo. Prendo l’ombrello. Era appeso vicino alla porta. È scuro, come la sporcizia che ho addosso.
Ripenso alla mia nascita.
8 Settembre 1970
Sento il caldo di quel giorno. La fatica di mia madre. La disperazione della solitudine. Nessuno mi crede. Ho smesso di raccontare. E poi di parlare. Finché ho smesso anche di guardare. Di leggere negli occhi della gente la mia follia, la mia non linearità, tutto ciò che di incoerente rappresento. Le persone non riuscivano a sostenerlo.
Mancano poche ore alla mia nascita. Sento il caldo di mia madre e cerco una pozzanghera. Mi devo sedere, sono stravolta. Le gambe sono gonfie, tutto il mio corpo è pesante. La pancia mi si contorce. Il respiro né sale né scende. La mente mi strizza gli occhi. Mi lascio cadere su un marciapiede. Non ho uno schienale, né una mano da stringere. Tantomeno occhi da cercare. Sono fradicia di sudore e di pioggia. Intorno nessuno suona più il clacson. Afferro l’ombrello immerso nella pozzanghera cercando di sfogare il mio dolore, la mia emozione. Sono in una città eppure sono sola. Io e Lei. Adesso è allo stesso tempo: esangue, pulsante, audace, coinvolgente. Io, però, non sono più io. Quale parte sono davvero?
8 Settembre 1970
Sono nata e sono morta.
Una volta su due.