Vinavil

Da quattro giorni Lucio viveva in balcone, stretto nel suo accappatoio sporco, a guardare le auto scorrere sulla Torino – Milano come brevi messaggi telegrafati da un mondo nuovo. Con la gola infetta e le mani ferme cercava di capire su quale furgone avesse viaggiato la lettera del suo licenziamento.
Settimo Torinese non era più una città ormai. Non era più il luogo del suo lavoro ma sopravviveva all’autunno gelido del Nord come una membrana, un involucro ingrigito e umido attraverso il quale era possibile unicamente uscire e non entrare. Per sei anni aveva fatto ritorno a Salerno con l’intercity delle 23:00, ogni venerdì sera da Torino. Poche ore in compagnia della famiglia bastavano a rigenerare i suoi pensieri pratici e a pompare forza nei muscoli ossidati. La domenica mattina si ripartiva presto: altri mille chilometri di speranze e sonno.
Lucio era sempre stato un emigrante quieto e invisibile. Si riteneva persino fortunato perché l’azienda per cui lavorava, al di là di un normale stipendio, gli pagava pure vitto e alloggio. Nella camera del motel dove dormiva – oltre al materasso di lana vecchia – c’era un piccolo comodino di legno compensato, una scrivania di abete lucido e una litografia sbiadita di Costantinopoli, con i tetti delle case rosa e le finestre colorate d’azzurro. Su un’anta dell’armadio qualcuno aveva inciso la frase: ”Dio c’è ma non è qui”. Lucio si sentiva in colpa quando la leggeva. Un mese fa provò a coprirla, con alcuni adesivi di Burger King: li ritrovò sparsi a terra il giorno seguente, rotti e ancora puliti. Di solito telefonava a sua moglie dopo cena, prima di sedersi sul letto a guardare la tv. Le chiedeva soprattutto di Antonio, il figlio di sei anni a cui madre natura aveva dimenticato di attaccare una parte di gamba. Quando lo vedeva correre – con il suo carrellino d’acciaio – pensava a un cavallo da trotto incapace di raggiungere qualsiasi traguardo. Aveva bisogno di cure e sorrisi non meccanici, ma da tre giorni Lucio non trovava il giusto coraggio per raccontare alla moglie del suo licenziamento. Se durante la telefonata del dopo cena provava a sorridere, i tendini della faccia s’incagliavano senza permettergli di generare alcun tipo di smorfia gentile. Rinchiuso nel motel, nascosto fra i pioppi e le rampe d’accesso all’autostrada, Lucio non riusciva a immaginarsi nessun giorno a venire. Per sentirsi meno solo usciva in balcone al mattino presto. Passava le ore a respirare vento e freddo, con la bocca spalancata e il naso tuffato nella nebbia provava a introiettare tutti i vapori della sua cittàmembrana. Ne aveva bisogno per pensare, per soffrire con dignità e sputare via le toppe di muco macchiate di sangue.

Gli addetti all’altoforno erano sottoposti a controllo medico una volta ogni tre mesi. Durante l’ultima visita – quando Lucio ancora pensava di essere utile, con le ossa e i nervi logori e una moglie e tre figli da poter accudire – gli era stata diagnosticata una leggera polmonite; ma già due suoi colleghi erano morti a causa di complicazioni da silicosi. Non era il caso ora di pensare a malattie più gravi – Lucio non ne aveva voglia – anche se le gambe cominciavano a seccarsi e le braccia somigliavano sempre più a delle stecche di legno su cui erano state dipinte alla buona delle vene bidimensionali.

“Domani vado a comprare un regalo per Antonio” aveva detto alla moglie, gli restavano altri due giorni prima di tornare a casa per sempre.

“Non serve” aveva risposto lei, con la voce impastata a quel po’ di dolcezza che la vita ti concede ancora a cinquant’anni. “Non sono cose necessarie, pensa solo a riposarti ché il lavoro è duro”.

“È necessario invece, lo è per me!” aveva risposto Lucio prima di attaccare. L’autostrada era sparita al di là dei vetri, i telegrafi del mondo nuovo avevano smesso di funzionare e la notte si apprestava a consumare rapida le ultime masse di sogni. Una donna coperta da un impermeabile bianco scese da una Golf ammaccata e aprì l’ombrello, poi si avviò lenta verso i fari lampeggianti di un enorme camion. Non c’erano altri segni di vita in strada, solo il rumore plastico della pioggia che batteva sulla grondaia e la tosse ferrosa di Lucio che si perdeva nella notte come piscio di topi nelle fogne.

L’autobus si muoveva pigro sull’asfalto, il suo ventre di lamiera traballava con stanchezza lungo via Torino. Lucio doveva fumare e riflettere con calma prima di un buon acquisto. Oltre ai soldi per il treno gli restavano poche lire per il viaggio. Scese vicino al chiosco dei giornali, per un’ora restò seduto a osservare. L’insegna del negozio di giocattoli era accesa e colorava di rosso il gradiente scuro del pomeriggio. Un uomo con un pullover a quadri, alto più di due metri, era fermo sulla porta. Con le mani si tastava il petto e il bacino e poi il culo, in cerca forse delle sigarette. Lucio guardò diverse volte a destra e a sinistra del viale: c’erano solo platani ammutoliti e nebbia. Raccolse tutte le sue forze e tossì guardandosi le scarpe. Non aveva mai comprato dei giocattoli.
Pochi passi e l’illusione di un’infanzia felice lo travolse. Bambole in abito rosa, bambole dalla pelle nera, puzzle colorati, case di plastica con piscina, una mela blu da cui usciva un verme che cantava, tavoli da ping-pong smontabili, pattini e tavole da skateboard; soldatini senza fortino ma con fucili a infrarossi, c’era un intero universo in espansione che scintillava di gioie consumabili. Gli occhi di Lucio si posarono su un’autobotte dei vigili del fuoco. L’uomo alto più di due metri camminava ostile fra gli scaffali con le mani incastrate nelle tasche. Non parlava, non toccava giocattoli, quando qualcosa di impercettibile entrava in collisione col suo animo allora tirava calci alle scatole ferme o si passava la mano ombrosa sulla testa. Lucio mosse una leva e la sirena sulla parte destra del camioncino cominciò a roteare riempiendo il negozio di luce blu e fastidiosi suoni intermittenti. L’uomo alto più di due metri era sparito.
“La botte si riempie d’acqua e si spruzza da qui; bisogna solo schiacciare il bottone verde!” una mano sottile e pallida sfiorò il bocchettone di plastica. Il senso d’inadeguatezza di Lucio si allargava ora sul viso liscio di una giovane donna con gli occhi a mandorla. Era lei che parlava e sorrideva.
“Quanto costa?” le chiese Lucio, evitando il suo sguardo.
“Vediamo…” la ragazza raccolse una scatola da terra e ne controllò le facce.
“Il prezzo è quarantaduemila lire. Le batterie sono in omaggio, c’è anche un anno di garanzia per alcuni tipi di guasti” disse, poi rimise a posto la scatola e si avviò alla cassa. Intanto l’uomo alto più di due metri era di nuovo comparso sulla terra. Con le braccia incrociate fissava i gesti di Lucio.

Il comodino era spoglio, il letto in ordine, il balcone aperto invaso dalla pioggia. Quando Lucio tornò al motel non aveva più idea di cosa stesse facendo. Fuori l’autostrada era muta, giù all’angolo il solito camion restava immobile senza lampeggiare. Passò la notte a leggere il libretto d’istruzioni. La telefonata con sua moglie era stata breve: Antonio aveva male alla gamba ed erano arrivate le bollette del gas e del telefono. “Torno un giorno prima!” disse, poi attaccò. La sirena dell’autobotte cominciò a brillare più tardi. Lucio seguiva i pompieri in accappatoio e a piedi nudi, per organizzare al meglio le ultime esercitazioni aveva pure riempito il camioncino d’acqua. Tossendo schiacciava con insistenza il bottone verde ma non accadeva nulla. Passò diversi minuti a sputare muco e sangue sulle piastrelle in attesa che la pompa di plastica si azionasse.
“Puttana di una cinese!” urlava, continuando a picchiare sul bottone verde dell’acqua fino a spaccarlo. Anche la sirena smise di brillare ed emettere suoni. Si ritrovò al buio, sul letto, più solo e triste di quanto non fosse mai stato.
Il giorno dopo arrivò in via Torino alle 16:00, prima dell’orario di apertura. L’insegna MONDO GIOCATTOLI era spenta, il cielo cominciava a tingersi di macchie blu elettrico e striature di nubi cineree. Il viale odorava di terra umida e foglie secche, gli autobus vomitavano volti e corpi ghiacciati ogni trenta minuti. Lucio si muoveva rabbioso lungo la pista ciclabile, con gli occhi arrossati dal freddo cercava un bar, una voce, dei volti o magari un’auto abitata. L’insegna del negozio continuò a rimanere spenta così si allontanò nelle campagne alla ricerca di aiuto o chissà di quali tracce. Un vecchio occupato a tagliare legna con una scure disse di non aver visto nessun uomo alto più di due metri. “Devo parlare con la ragazza cinese!” gli confessò Lucio, “è urgente, si tratta di una questione molto delicata” continuò a dire. Il vecchio proseguì a spaccare legna e alla fine disse che avrebbe chiamato la polizia se non si fosse allontanato dalla sua stalla.

Lucio camminò nella campagna scura, sotto la grandine, fino alla stazione di servizio. Erano le dieci di sera. Rovistò nelle tasche dei pantaloni, nella busta e nella scatola del regalo ma non trovò lo scontrino. Voleva denunciare tutto in questura: la ragazza dagli occhi a mandorla lo aveva rassicurato con un anno di garanzia per alcuni tipi di guasti. Forse l’uomo alto più di due metri aveva rimosso lo scontrino dalla busta prima di sistemarci all’interno l’autobotte. Ora non vi era più nemmeno la prova che Lucio fosse il legittimo proprietario di quel giocattolo difettoso. Al bar dell’Agip controllò di nuovo tasche e busta poi si diresse al punto vendita di fianco. Non avrebbe più telefonato a sua moglie.
“Avete della colla?” chiese senza salutare.
“Per cosa le serve?” disse il giovane rasato col giaccone giallo.
“Per farmi perdonare da Dio!” rispose Lucio.

Tornato sul viale, non si diresse al motel né alla stazione dei treni. Vagò per ore attraverso la campagna fangosa, con la vinavil che dalla tasca dei pantaloni colava lenta lungo la gamba – proprio come la vita, che si trascina terrorizzata verso il futuro. Il vento gelido e le ombre lo scortarono fino al parcheggio vuoto di un supermercato. L’aria scesa nei polmoni puzzava di catrame e colla. Doveva prendere una decisione. Doveva ancora – necessariamente – esistere.