L’unica innocua meraviglia, Brooke Bolander

Agli inizi del XX secolo, un gruppo di operaie moriva in una fabbrica del New Jersey; nello stesso periodo, un’elefantessa veniva condannata a morte per elettrocuzione, a Coney Island: è da questi due eventi che origina la novella L’unica innocua meraviglia – il titolo tratto da un verso della poesia The progress of the soul di John Donne del 1612 – scritta dall’autrice statunitense Brooke Bolander e pubblicata in Italia nel 2021 dalla casa editrice modenese Zona 42, nella magistrale traduzione di Martina Del Romano.
Due eventi che restituiscono a questo numero – il due – una ricorsività riflessa nelle protagoniste principali, Regan e Topsy: una umana, costretta a turni di lavoro indicibili; l’altra un imponente pachiderma descritto quasi sempre di spalle, arrivata nella US Radium dopo esser stata acquistata per pochi soldi da un circo puzzolente e dozzinale.
Due modi di essere schiave di un mondo, come definito da Bolander, cattivo e mediocre, impietoso nel sottomettere le sue creature, tenendole appese al filo delle condizioni di difficoltà strutturale in cui riversano da un lato; sottraendole dal loro ambiente e condannandole a una vita di solitudine e in cattività dall’altro, per trasformarle, infine, in pupazzi di spettacoli crudeli a cui accorrono decine di persone, illuse di essere estranee a quel progressivo meccanismo di auto-distruzione di cui l’essere umano è l’unico incurante responsabile.
Due modi per morire, nel corpo e nella memoria. Regan abbrevia il suo tempo facendo la punta con la saliva ai pennelli pregni di radio. Il radio non è solo innocuo, anzi, ti fa bene, le dicono. Topsy è invece sempre più debole e sempre più frequentemente si accascia a terra. È in uno di questi momenti che la ragazza la osserva, il mio lavoro è insegnarti come si muore […]. Sappiamo tutti come si muore. Basta che smetti di vivere e bam, ce l’hai. Per l’elefantessa, invece, morire significa non poter tramandare Storie. Senza storie non c’è né passato né futuro. È una memoria condivisa, quella a cui si riferisce, una memoria che gli umani non posseggono; una forma di resistenza, nel suo essere l’unica cosa che le prigioni del mondo mai potranno rendere niente.
Muovendosi tra territori ora assediati da scorie nucleari, prima distese dove le mandrie di elefantesse si aggiravano insieme ma libere, tale caratteristica – la memoria – associata a questi animali regala delle suggestioni rivestite di un alone mitico che è la stessa autrice a spezzare, per riportare chi legge a conoscere i mortali nello scenario ucronico di una realtà d’oppressione, tessendo le trame di una storia apparentemente fondata su una contrapposizione binaria tra i due mondi rappresentati dalle protagoniste, ma che di fatto è un romanzo corale, il ritratto di una dimensione femminile plurale, narrato da una scrittura multiforme che in poco più di cento pagine restituisce la voce a una moltitudine di destini, tanti, tra loro diversi, per vederli intrecciarsi e moltiplicarsi.
Kat, una donna ambiziosa, che cerca di vendere i propri progetti ai suoi capi, a volte venendo meno persino a sé stessa; Jodie e la sua lettera dalla miniera, i cui errori grammaticali sanno delle possibilità da cui è stata strappata via; la stessa Regan, con una madre e delle sorelle da aiutare, tra le quali spera di poter esalare il suo ultimo respiro; Topsy, la cui morte sarà resa una performance, la capitolazione di un’eroina, volto delle magliette vendute negli spacci alle porte della US Radium; corpi senza nome, lasciati a morire nei corridoi di un ospedale, tra l’odore di farmaci e della gangrena che avanza. Tutti uniti nella cornice di luoghi talvolta poco definiti, di cui si tendono a evidenziare pochi elementi: i soffitti bassi e i corridoi stretti, le pareti dai colori nauseabondi, una lampada elettrica che diventa il correlativo oggettivo di una irrisolvibile iniquità. Di contro, il senso di prigionia e di abbandono che trasmettono è vivido, come gli sguardi di coloro che li abitano, mentre la narrazione è scandita da un tempo in cui dialogano passato e futuro, per abbattersi su un presente che fa i conti con dinamiche di assoggettamento mai finite, guardando a un avvenire popolato da vite che cercano di ritagliarsi i loro spazi, trascinandosi dietro il peso delle loro catene.
Un testo breve, ma infinito; un tema complesso affrontato in maniera semplice, attraverso immagini che contribuiscono a costruire il senso di una storia la cui eco trascende i confini del libro stesso come le canzoni delle Molte Madri, ma la cui essenza è racchiusa negli attimi di silenzio, dove resta solo l’empatia, la compassione tra coloro che in modi diversi cercano di salvarsi come possono, la quale è forse l’unica cosa – riprendendo non letteralmente le parole dell’autore uruguaiano Felipe Polleri – di cui sarebbe bastato parlare sin dall’inizio, come unica innocua meraviglia di una partita truccata in partenza.