Abbiamo il mare

A diciotto anni ho compreso che è troppo facile pensare che lo scacco matto per vincere la solitudine amorosa sia la compagnia. Chi casca in questo tranello vive nel paradosso tragicomico degli angeli e si allontana sempre di più dalle vere risoluzioni. A quell’età camminavo per le strade di provincia del capoluogo pugliese con la sicurezza fittizia di chi crede di aver già incontrato e amato tutte le persone importanti della propria vita. Naturalmente non era così, perché ogni tre o quattro mesi i miei castelli di sabbia – ai quali ero ansiosamente attaccata – ritornavano poltiglia, e periodicamente ricominciavo a piantare i semi dei miei desideri più intimi in territori a me totalmente estranei, nella speranza di raccogliere dei frutti da poter stringere tra le mie mani senza la conseguenza finita della loro morte. In quel deserto che puntualmente mi si ripresentava raggiunsi tardi il punto d’inizio di una verità importante: non si può pretendere di vivere in abbraccio con un germoglio, così come non ci si può categoricamente aspettare che le mani si ricongiungeranno sempre intorno alla quercia. Certe volte la precarietà di un semicerchio è più rassicurante di un ritmo ciclico perfetto che pare infinito.

Nello stesso periodo ho percepito per la prima volta uno spazio trasparente dove ci sarebbe dovuta essere la vita. Da lì si vedeva tutto quello che rimane visibile ad un cieco quando nasce sano e qualche disgrazia gli brucia l’iride per sempre. Si vedeva l’attesa nella sua tridimensionalità. Non ho mai capito cosa stessi aspettando, allora. Per cosa fremevo rabbiosa, ma paziente? Nella tenerezza infantile di quell’attesa affamata mi identificavo spesso nel lamento familiare di Prometeo alla vista dell’avvoltoio. Oppure nella sua pelle lacerata, squarciata e sanguinante durante tutto il processo di rigenerazione del fegato. Mi immaginavo seduta su uno sgabello al centro del mio stesso petto, con davanti i debiti del cuore che non riuscivo a pagare a prescindere dalle mie risorse. Niente dentro di me si faceva modellare tanto fluidamente da concedermi di creare qualcosa che avesse una quantità di sostanza tale da destare il tipo di curiosità che volevo sfamare negli altri. Nulla durava abbastanza a lungo da permettermi di uscire dalle trappole in cui molto volontariamente riuscivo a cadere. Pensavo che la serenità sarebbe arrivata di colpo se solo avessi trovato il modo di scivolare altrove insieme al tempo, senza imbattermi negli spigoli calcolati del dover agire.

Più tardi mi sono ritrovata a scavare incuriosita dentro il vincolo della disciplina, del rigore e del silenzio che mi ero autoimposta per tenere d’occhio il flusso impazzito della realtà che continuava a sgorgare davanti al mio sguardo appena presente eppure già saturo. Prima di arrivare a questo punto mi ero convinta che lasciarsi andare e “perdere il controllo’’ fossero cose da evitare, rischi troppo grandi per una persona che aveva vissuto a lungo sul confine indefinito di una pericolosa smarginatura. La curiosità per le sfumature più nascoste di quel vincolo mi ha portato a scoprire piano la bramosia segreta dentro un certo senso di fermezza. Ho cominciato ad agire dando alle mie intenzioni la stessa dimensione che ha lo strano piacere scatenato dal trattenere, dal riservare, dal pensare di dover nascondere, dalla contrazione muscolare elettrica bloccata forzatamente dentro il corpo quando l’istinto primordiale più intimo è quello di sbavare addosso ad un altro corpo, di diventare carne su carne, cane mordente succube dei propri desideri.
Dopo la rivalutazione cosciente di quella smarginatura che aveva segnato tutta la mia esperienza di vita, ho smesso di avere paura delle mie emozioni. È stato faticoso, un complicato riappacificarsi di cuore e sangue. Questo mi ha portato a sperimentare un tipo di inquietudine diversa, più interessante e probabilmente più in linea alla parte sacra che completa la terrestrità che mi forma. Allora adesso mi è più chiaro: capita che ci innamoriamo e ci aspettiamo che dentro il nucleo dell’altro ci sia già ciò che serve per l’unione a cui insieme si aspira. Ma non è così. Volersi bene (amarsi) non è che un atto reciproco di perpetua propensione, è l’intenzione che grida io sono io ma tendo [tendere, tensione] attivamente nei tuoi confronti, devo [dovere, devozione] qualcosa alla tua direzione. Così nasce naturalmente il desiderio umano di modificare quella propensione per agevolare un amalgamarsi più particolare, di armonia. L’immagine è simile a quella delle singole alghe nascoste sott’acqua, concatenate maestosamente tra loro solo dalla corrente marina. Noi siamo le alghe e siamo la corrente e abbiamo il mare. O almeno così dovrebbe essere.