Corpo di donna e corpo di madre. Da Morante a Ferrante
Scrive Elsa Morante a proposito dei corpi delle madri, nel racconto Lo scialle andaluso: “I loro abiti sono informi, giacché nessuno, a cominciare dalle sarte delle madri, va a pensare che una madre abbia il corpo di donna”. Queste stesse parole sono riprese testualmente nella quarta stagione de L’amica geniale, adattamento seriale del romanzo omonimo di Elena Ferrante; nel secondo episodio, La dispersione, Lenù, esortata a intervenire durante la riunione del gruppo di autocoscienza nella casa milanese della cognata Mariarosa, dice, in presenza delle sue stesse figlie: «Potrei partire da Elsa Morante, che dice che nessuno pensa che una madre abbia corpo di donna. Per i figli e le figlie le madri hanno corpi informi. Lo abbiamo pensato anche noi e forse lo pensiamo ancora delle nostre madri».
Giuditta, la protagonista del racconto di Morante, sceglie da ragazza di dedicarsi alla danza, trasferendosi a Roma e macchiandosi di scandalo e di disonore agli occhi della sua tradizionale famiglia siciliana. La maternità e, prima di essa, il matrimonio sono stati il legame obbligato, l’inevitabile condanna affettiva delle donne alla quale anche Giuditta non ha potuto sottrarsi. “Giuditta, nella lotta, si condusse da eroina” e vedova e madre di due gemelli, Laura e Andrea, a Roma lavora come ballerina dell’Opera. Andrea vive nei riguardi di Giuditta un amore risentito perché privato dell’esclusività ed è ostile alla professione di Giuditta, perché è comune credere che in ogni corpo di bambina, ragazza, donna si nasconda una madre, ma mai si pensa che in ogni corpo di madre sia nascosta una donna. Giuditta è soltanto una delle eroine morantiane che non ha rinunciato a essere altro al di fuori del ruolo assegnatole dalla nascita, che non ha soppresso le sue volontà e i suoi desideri, malgrado il suo stesso corpo – forse per la deformazione subita durante e dopo la gravidanza? – sia stato la causa del suo fallimento professionale. Non è casuale, infatti, che Elsa Morante scelga per Giuditta la danza; ancor meno casuale è che Giuditta sia una ballerina classica, tenuta a rispettare una forma fisica adeguata, conforme a un imprescindibile modello di magrezza. Il corpo di ballerina e il corpo di madre sono inconciliabili, l’ambizione senza talento di Giuditta è stata spezzata fin dalla sua unica e duplice gravidanza.
Ferrante ha letto e amato Elsa Morante e da lei ha tratto molta della sua materia narrativa. Con particolare evidenza ne L’amica geniale, la condizione femminile è interpretata, vissuta e subita attraverso i corpi; Ferrante si interroga sulla sfigurata fisicità femminile, sull’aspetto esausto, sudicio, pesante delle donne; sui volti scarni, raggrinziti e aspri; sulla causa e il principio di tale abbrutimento.
In quell’occasione, invece, vidi nitidamente le madri di famiglia del rione vecchio. Erano nervose, erano acquiescenti. Tenevano labbra strette e spalle curve o urlavano insulti terribili ai figli che le tormentavano. Si trascinavano magrissime, con gli occhi e le guance infossate, o con sederi larghi, caviglie gonfie, petti pesanti, le borse della spesa, i bambini piccoli che le tenevano per le gonne e che volevano essere presi in braccio. […] Erano state mangiate dal corpo dei mariti, dei padri, dei fratelli, a cui finivano sempre più per assomigliare, o per le fatiche o per l’arrivo della vecchiaia, della malattia. Quando cominciava quella trasformazione? Con il lavoro domestico? Con le gravidanze? Con le mazzate?
Lenù è la voce attraverso cui sono espresse queste riflessioni e la lente di ingrandimento sul mondo che ci consente l’analisi del microcosmo che la circonda e dei suoi mutamenti. Lenù è l’anomalia del suo tempo, la donna imperfetta, disobbediente, il tentativo inesausto di emancipazione femminile ostacolato dal sistema culturale dal quale anche lei, come Giuditta, non può considerarsi esclusa, nonostante la laurea e il suo status di scrittrice affermata e riconosciuta. L’indipendenza le si annuncia come un miraggio, una conquista che si svelerà fittizia; Lenù dovrà fronteggiare un presente ostile e gonfio di tradizione maschilista. Al tempo stesso è la contraddittorietà che fa la verità di Lenù, la storia che sceglie di scrivere è anche l’intima confessione delle sue storture, delle sue umane incertezze, dei torti che infligge a se stessa e alla propria autonomia, fin da quando, qualche minuto prima di sposarsi, avverte Pietro che non desidera avere figli – “Disacculturarsi a partire dalla maternità, non dare figli a nessuno” – per dedicarsi senza impedimenti alla scrittura di un secondo romanzo. Di figlie, invece, ne darà due, Adele ed Elsa, e dopo la separazione, una terza a Nino, Immacolata. Ma Lenù non ha vissuto con pentimento e infelicità le sue gravidanze, al contrario durante la prima l’ha colta un piacere inaspettato che l’ha rinfrancata dall’inedia e dalla disillusione della fase iniziale di vita matrimoniale. È uno dei tanti aspetti che la differenziano da Lila. Se Lenù descrive il suo primo parto e il momento in cui si è “sgravata” e ha visto per la prima volta sua figlia come un istante di inenarrabile piacere, la seconda gravidanza di Lila trascorre lenta, sfiancante; il suo parto viene definito dalla ginecologa che l’ha assistita una “lotta contro natura”, uno “scontro orribile tra una madre e la sua creatura”. Ma Lila teme “lo scrollarsi e inarcarsi della materia, odiava il malessere sotto ogni forma”, avrebbe voluto trattenere la sua bambina dentro di sé per non sentire lo strappo violento della perdita, il ventre sgonfiarsi e svuotarsi di movimento e di senso.
Le sembrava insensato quel custodire il figlio in grembo e, insieme, volerlo espellere. È ridicolo, disse, che questa ospitalità squisita di ben nove mesi si accompagni alla smania di buttar fuori l’ospite nel modo più violento. […] Cose da pazzi, esclamò ricorrendo all’italiano, è il tuo stesso organismo che ce l’ha con te, e anzi ti si rivolta contro fino a diventare il nemico peggiore di se stesso, fino a procurarsi il dolore più terribile che ci sia.
L’ultimo volume della tetralogia è il più tragico ma anche, tra i quattro, il libro della maturità, della resa dei conti con il passato e nel caso di Lenù, anche del confronto definitivo con sua madre, la figura del conflitto, della dicotomia dei sentimenti, dell’amore cattivo che non può esternarsi se non nella severità, nella durezza, nella fierezza ostile che è possibile cogliere soltanto se ci si impegna a scorgere l’altro senso inespresso delle parole. La figura materna è stata per Lenù, fin dall’infanzia, uno spettro che ha saputo raggiungerla anche laddove il rione sembrava un angolo remoto del mondo, in ogni città dove è arrivata da forestiera, in ogni camera dove il nascondiglio sembrava sicuro. È stato un altro ingenuo e falso rimedio di Lenù, quello di credere che accrescere la distanza dai luoghi e dalle personificazioni del dolore avrebbe allontanato il dolore stesso, sovrapponendo e confondendo la causa e l’origine, costringendosi a una fuga senza risoluzione che può culminare soltanto con il ritorno alla sua città, rinnegata e rimpianta a un tempo, che vuol dire anche ritorno a un altro luogo, primigenio, più antico di quanto sia Napoli e il rione: il ritorno al corpo di sua madre, anch’esso tozzo, grave, ormai malato; al suo passo claudicante, alla gamba offesa, trascinata a fatica, nella quale Lenù legge, atterrita, la minaccia di poter diventare come lei, di acquisirne senza consapevolezza i tratti odiati, la lingua scurrile, la volgarità, fino ad assorbire tutte le sue deformità, anche la gamba offesa, fino a sentire sua madre insinuarsi in lei come lei tempo addietro si era fatta spazio dentro sua madre – “quando mi abbracciava prima che me ne andassi, sembrava che lo facesse per scivolarmi dentro e restarci come una volta io ero stata dentro di lei”. Tuttavia, la ripugnanza, di fronte alla fragilità, si volge in tenerezza; i ruoli, come accade spesso, si ribaltano e Lenù, disancorata dal suo ruolo di figlia, deve inventarsi madre di sua madre, accudirla come era stata accudita lei un tempo. Di fronte alla minaccia della morte, il corpo da fuggire diventa la vita da trattenere.
Secondo la rappresentazione medievale, come spiega Nadia Maria Filippini in Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, la nascita era intimamente relazionata alla morte; i due eventi non erano collocati agli estremi del percorso lineare della vita, la nascita era considerato un evento reversibile e la morte interpretata come un ritorno. Nel tentativo di motivare “razionalmente” l’evento, si giunse a credere che il neonato provenisse dal mondo dei morti e che nella prima fase della sua vita si trovasse sospeso tra una dimensione e l’altra, in grado di comunicare con i defunti e messo in pericolo dagli antenati che di notte provavano a richiamarlo a sé, scatenandone il pianto. La concomitanza tra nascita e morte fu elaborata anche per le chiare corrispondenze tra le due fasi marginali della vita, la prima infanzia e la vecchiaia, “lungo il filo dell’incapacità e del bisogno di accudimento”. È infatti sopravvissuta a lungo una credenza che “interpretava la nascita del bambino come sostituzione della perdita di un familiare: si considerava normale che, dopo la morte di un vecchio della famiglia, nascesse un bambino che ne riprendeva il nome, come se le due vite arrivassero e partissero dallo stesso luogo ultraterreno”.
Tornata a Napoli, al rione, Lenù ritrova sua madre, piegata dal tempo e indebolita dalla malattia; vede come in lei la vita sia ridotta a pochi residui e sente scatenarsi su di sé “l’urto del tempo”, l’ineluttabilità del destino umano. Al tempo della malattia, Lenù è incinta della sua terza figlia; mentre in lei un’altra vita si dimena per esistere, fuori un’altra sta esaurendo la sua forza. Anche Lila è incinta negli stessi mesi. Le due partoriranno a poche settimane di distanza, entrambe daranno alle loro figlie i nomi delle proprie madri: Immacolata – «Però la potete chiamare Imma, che è più moderno» – e Tina, diminutivo di Nunzia. Sembra che Immacolata abbia atteso l’arrivo di Imma, come ipotizza Lenù – «ha resistito fino al momento in cui ha potuto vedere Immacolata e poi s’è lasciata andare» – e che Imma sia arrivata in sostituzione di un vuoto per riempirlo nuovamente di senso, per incarnare un nome che conserva in sé non la morte, ma insieme il ricordo e il principio di una vita.
Mia madre era ridotta a quasi niente, eppure era stata veramente ingombrante, aveva pesato su di me facendomi sentire come un verme sotto la pietra, protetta e schiacciata. Le augurai che il rantolo finisse, subito, adesso, e con mia meraviglia così accadde. Di colpo la stanza diventò silenziosa. Aspettai, non trovavo la forza di alzarmi e andarle accanto. Poi la lingua di Imma schioccò e il silenzio si ruppe. Lasciai la sedia, mi avvicinai al letto. Noi due – io e la piccola, che nel sonno stava cercando avidamente il capezzolo per sentirsi ancora parte di me – eravamo, dentro quello spazio di malattia, tutto ciò che di vivo e di sano rimaneva ancora di lei.
Soltanto facendo esperienza della morte Lenù riesce a comprendere la forza inesauribile di un legame che permane, resta al di là del corpo che si sfarina, della voce che si è spenta e forse non riuscirà più a rievocare; resta nel ricordo di quel corpo di madre amato con risentimento e resta nel suo corpo di donna, venuto da quel ventre, e insieme di madre che nel suo ha generato altra vita.
Per la prima volta Lenù conosce la mancanza, anche se questa parola nel libro non compare; giustifica questo sentimento senza rimedio scrivendo rimpianto e senso di colpa e sperimenta i metodi di sopravvivenza alla perdita affidandosi agli oggetti appartenuti a sua madre. Ma nulla basta a sopravvivere allo smarrimento, se non illudersi che davvero sua madre abbia scelto di perdurare dentro di lei, procurandole le fitte all’anca che la costringono a zoppicare – “Fu per questa ragione forse che, avendo la gravidanza riesumato la fitta all’anca e non essendo il parto riuscito a cancellarla, scelsi di non rivolgermi ai medici. Mi coltivai quel fastidio come un lascito custodito nel mio stesso corpo”. Di questa illusione ha coscienza soltanto Lila, l’altra voce di Lenù.
Mi fissò per un attimo con malizia, fece qualche passo per il bagno zoppicando, scoppiò a ridere in un modo un po’ artificiale. […]
«Non mi prendere in giro, mi fa male l’anca».
«Non ti fa male niente, Lenù. Ti sei inventata che devi zoppicare per non far morire del tutto tua madre, e ora zoppichi veramente, e io ti studio, ti fa bene. […] Stai invecchiando come si deve. Ti senti forte, hai smesso di essere figlia, sei diventata veramente madre».
Di sua madre e del suo corpo, Lenù e le sue figlie sono testimoni e prolungamento, la traccia che, impressa nella memoria del tempo, dura oltre l’inganno della morte.