Donne e lavoro: una strada in salita

Dalle prime battaglie del movimento femminista durante l’ottocento fino ad oggi, si sono raggiunti molti obiettivi relativamente alla presenza delle donne nel mondo della rappresentanza politica e professionale, diminuendo lo scarto tra presenze femminili e maschili nelle varie istituzioni. Però la situazione è ancora molto problematica. 
I dati Istat più recenti (2015) parlano di un’occupazione media femminile in Europa del 64,5% contro il 48,5 % in Italia; inoltre una donna su tre abbandona il posto di lavoro nel primo anno di vita del figlio, dato che si tramuta in una media nazionale del 27,3 % delle donne che lasciano il lavoro durante la prima maternità. I congedi parentali in Italia sono utilizzati solo dal 27 % dei maschi; gli asili nido pubblici e privati in Italia sono 11000 e coprono solo il 24 % della richiesta. In Campania questo numero scende al 7 %, mentre in Calabria sale al 73 % ma esclusivamente nel settore privato. Nel 2020 i voucher per l’assistenza familiare, che fa riferimento al Fondo Assegno Universale e Servizio alla famiglia (concretizzato nei bonus bebè e bonus asilo nido) raggiunge 300 euro al mese per le donne disoccupate. Consideriamo che una baby sitter costa in media 600 euro al mese e ci rendiamo conto logicamente di come sia una goccia in un vasto mare. Questa situazione incresciosa sta avendo da tempo degli effetti sull’andamento demografico italiano, tanto che si parla di BABY BUST contro il BABY BOOM degli anni sessanta. La natalità in Italia, sempre in base ai dati Istat, è scesa a 1,18 %; l’età media delle donne che scelgono di avere un figlio è salita a 31 anni, e addirittura il 25% delle donne nate nel 1979 sceglie di non avere figli. Inoltre molte donne, rimandando la scelta della maternità per motivi di studio e di lavoro, poi perdono la possibilità di portare avanti una gravidanza. Questo quadro europeo e soprattutto italiano fa comprendere che la maternità, pur essendo una funzione sociale, viene affrontata delegando ancora alle donne la cura dei figli e spingendo verso una scelta esistenziale radicale: la carriera oppure il figlio. Logicamente questo gap aumenta con il diminuire del reddito. Le donne delle classi meno abbienti sono quelle che pagano il prezzo più alto in relazione alla rinuncia delle loro ambizioni professionali e culturali. Facile riflessione: davanti alla nascita di un figlio, le differenze di genere in Italia, diventano insormontabili. E questo sicuramente crea nelle donne una dose di frustrazione e di stress, un senso di esclusione e di perdita, una qualità di vita sociale assolutamente scadente e una difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro, in seguito. Bisogna lavorare ancora per dare alla famiglia in quanto tale ogni sostegno per permettere a entrambi i coniugi di realizzarsi e di essere, senza pregiudizi e stereotipi di genere, entrambi caregiver. Si tratta di una mentalità che deve ancora modificarsi, per diventare progetto politico accettato e condiviso da tutti. 
Anche nella carriera universitaria possiamo segnalare il fenomeno del TUBO FORATO, analizzato dagli studi dell’UNESCO circa la dispersione professionale delle ricercatrici universitarie. Infatti il 40 % delle ricercatrici italiane non riescono a completare la loro carriera accademica e solo il 23% sale in cattedra. E sicuramente non è questione di preparazione. Durante il lockdown sono state proprio le donne a essere penalizzate, perché la responsabilità della cura è ricaduta sulle loro spalle. I contributi scientifici delle ricercatrici infatti sono calati, mentre sono aumentati quelli dei ricercatori. La pandemia ha sicuramente peggiorato le condizioni di vita delle donne, spingendole ancora di più nella precarietà lavorativa con contratti di lavoro flessibili, part time e a contratto determinato. Anche lo smart working e la didattica a distanza hanno reso difficile e gravoso per le madri lavoratrici conciliare i tempi della cura con i tempi del lavoro. Work life balance: una questione ingestibile.
Per intervenire su questo quadro così grave è necessario quindi modificare prima di tutto la concezione stereotipata della famiglia, dove è la donna essenzialmente a garantire la cura dei figli. Questa importantissima funzione deve allargarsi alla coppia genitoriale, accompagnandosi alla consapevolezza che la maternità è un servizio sociale e non il destino della donna biologicamente imposto. 
Un altro problema irrisolto è quello della sotto-rappresentazione delle donne nelle fasce dirigenziali, nelle professioni più lucrative e prestigiose, nei ruoli politici più rilevanti.  Un rimedio di cui si parla da molto tempo ormai sono le “quote rosa”, cioè una strategia compensativa basata sull’imposizione di percentuali di genere per superare almeno le situazioni più gravi di discriminazioni.  Misure simili esistono in relazione alla presenza delle donne nelle liste per le elezioni amministrative e politiche, nelle commissioni di concorso, nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa e nelle società a partecipazione pubblica. Non sempre sono davvero efficaci, anche perché in alcuni casi non è difficile eluderle (ad esempio non dando preferenze alle donne in lista) e in altre la giurisprudenza ne ha ridimensionato la pregnanza (come nelle commissioni di concorso, la cui composizione irregolare non si riflette sui risultati delle selezioni). In alcuni casi, come la presenza nei consigli di amministrazioni, le quote rosa servono poi a garantire la partecipazione delle donne nei luoghi decisionali, ma non è detto che poi garantiscano una più incisiva valorizzazione del lavoro delle donne. 
Nonostante le innovazioni legislative, il vero cambiamento non si realizza fino in fondo perché, a mio parere, ancora manca una capillare educazione di genere che coinvolga le nuove generazioni, formando ragazzi e ragazze alla parità effettiva tra i sessi. Bisogna continuare a far conoscere la storia del movimento di emancipazione e di liberazione delle donne per non perdere la coscienza dei traguardi raggiunti e soprattutto alfabetizzare ai sentimenti, al profondo rispetto dell’altro e alla   collaborazione paritaria nella coppia e nella famiglia.