Federalismo partecipativo vs federalismo discriminatorio. Spunti di riflessioni sulla base dei contributi di Gaetano Salvemini

A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione della Repubblica democratica italiana varata nel 2001 dal governo di centro-sinistra presieduto da Giuliano Amato, non solo viene cancellato dalla carta costituzionale ogni riferimento esplicito al Mezzogiorno, ma si assiste anche al passaggio del suo assetto politico-istituzionale da una forma centralistica a quella che i costituzionalisti definiscono il “sistema delle autonomie”, ossia alla legittimazione delle autonomie locali – Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni – quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della stessa Repubblica. Enti che, in quanto tali, devono farsi carico dei bisogni delle popolazioni che vi risiedono.
Si tratta di un passaggio epocale per la storia politico-istituzionale dell’Italia, in quanto, nel mutato contesto politico nazionale ed internazionale di fine anni ’90 ed inizio anni 2000, sulla base del riconoscimento del carattere originario delle autonomie locali si avvia un processo di decostruzione del modello statuale centralistico, che, sebbene in forme diverse, ne ha rappresentato una costante dall’età liberale sino alla prima età repubblicana, passando per quella fascista.
In altri termini, dopo la nascita delle Regioni nel 1970, sebbene fossero già contemplate nella Carta costituzionale del ’48, nella riforma del Titolo V trovano sbocco alcune forme delle istanze federaliste, regionaliste, autonomiste e municipaliste che hanno caratterizzato il dibattito politico-istituzionale e politico-culturale italiano dal Risorgimento sino alla Lega Nord (Cfr. C. Petraccone, Federalismo e autonomia in Italia dall’unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1995).
Nello specifico, sullo sfondo della crescita dei consensi elettorali per la Lega Nord portatrice di istanze separatiste, la riforma del Titolo V della Costituzione viene varata nel 2001 “per volontà e responsabilità della maggioranza di centrosinistra. Si abbandona la prassi sempre osservata di riforme costituzionali ampiamente condivise, per l’irraggiungibile miraggio – svanito poi nelle urne – di recuperare il Nord nel voto oramai prossimo. E si inaugura la infausta stagione delle riforme a colpi di maggioranza, e nell’interesse della maggioranza” (M. Villone, Italia divisa e diseguale. Regionalismo differenziato o secessione occulta?, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, p. 259).
Dalla riforma scaturisce la possibilità da parte delle Regioni che ne fanno richiesta di vedersi attribuite “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (Art. 116 della Costituzione) rispetto alle Regioni sia ordinarie che a statuto speciale. In questo modo, si rafforza la tendenza al “sovranismo regionale” (G. Viesti, Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Bari-Roma 2023, p. 8), che, indebolendo la sovranità dello Stato centrale sino a ridurlo a “paese arlecchino” (Ivi, p. 10), e subordinando a sé stesso l’autonomia dei comuni e delle province (Ibidem), si configura sia sul piano giuridico-politico che su quello economico-finanziario come una “secessione dei ricchi” (Ivi, p. 5).
Date le profonde disparità economiche, sociali e civili ancora oggi vigenti tra il Nord e il Sud del Paese (Cfr. Rapporto Svimez. L’economia e la società nel Mezzogiorno, 2023), se attuata, la “secessione dei ricchi” comporterebbe, tra le altre conseguenze, la definitiva istituzionalizzazione della condizione del Mezzogiorno come colonia estrattiva interna del Paese (Tra gli altri, cfr. P.M. Busetta, La rana e lo scorpione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023).
Contro la vulgata frutto del pregiudizio antimeridionale di un Sud da sempre “palla al piede del paese” (Tra gli altri, cfr. A. de Francesco, La palla al piede, Feltrinelli, Milano 2012), occorre precisare che, stando ai principi di uguaglianza formale e sostanziale contemplati dall’Articolo 3 della Costituzione, tali disparità sono state alimentate nel corso dell’ultimo ventennio circa da un’iniqua distribuzione della spesa pubblica complessiva pro-capite a livello territoriale, penalizzando il Sud a vantaggio del Centro-Nord. Infatti, sulla base del criterio della spesa storica, tale distribuzione riserva al 34% della popolazione nazionale, quella che risiede nel Mezzogiorno, soltanto il 28% delle risorse pubbliche complessive. In termini assoluti, ogni anno 62miliardi di euro in meno, per garantire, invece, al 67% della popolazione italiana residente al Centro-Nord il 72% di tali risorse, ossia 62miliardi di euro in più in servizi afferenti la scuola, la salute, i trasporti, etc. (Cfr. RGS, CTP, Svimez, in “Quotidiano del Sud-L’altra voce dell’Italia”, a. 19, n. 99, 10 aprile 2019, p. II).
In altri termini, se dovesse essere attuato, il regionalismo differenziato statuirebbe la fruizione dei diritti di cittadinanza sulla base dello ius domicilii (Viesti, Contro la secessione dei ricchi, cit., p. 6), ossia, per intenderci, sul CAP di residenza, stravolgendo, così, lo spirito e la lettera della Costituzione tramite la rottura conclamata del patto di solidarietà nazionale sottoscritto dai Padri costituenti nel 1948, per dare, invece, vita ad uno Stato federale incentrato su un regionalismo estrattivo, asimmetrico e sperequativo. Uno Stato che, strutturato sulla base di un sistema di “poliarchia regionale” ed etno-regionalista (Isaia Sales, Una legge che trasforma legittime diversità territoriali in stabili diseguaglianze civili, in “La Repubblica”, 24/01/2024), in cui si cristallizzerebbe l’inveterato pregiudizio antimeridionale di un Sud abitato da “oziosi, sudici, briganti” (V. Teti, Maledetto Sud, Einaudi, Torino 2013, p. 89), discriminerebbe in via definitiva i ‘fratellastri d’Italia’ dai ‘fratelli d’Italia’. Una deriva pericolosissima, che potrebbe sfociare nella “balcanizzazione del Paese” (N. Cuccurese, Il Sud che ora abbiamo davanti, in L. Marino (a cura di), Lezioni meridionali, LEFT, Pomezia 2021, p. 125).
Rispetto a tale forma di federalismo egoista, estrattivo e discriminatorio su base etno-regionale-liberista costruita tramite riforme calate dall’alto, risultano essere ancora attuali i contributi critici offerti da Gaetano Salvemini al dibattito sui nessi intercorrenti tra questione meridionale, autonomia comunale, regionalismo e federalismo sia a cavallo tra Otto e Novecento, sia nel primo dopoguerra, sia in occasione della fase della Costituente. Contributi da cui si può trarre un modello di federalismo diametralmente opposto a quello oggi vigente, un modello di federalismo municipale, partecipativo e solidale (Tra gli altri, cfr. Salvatore Lucchese, Gaetano Salvemini e il federalismo visto da Sud, Secop Edizioni, Corato 2023).
Infatti, se a cavallo tra ‘800 e ‘900, lo studioso pugliese afferma a chiare lettere che se si vuole evitare una “guerra orribile” (G. Salvemini, La questione meridionale e il federalismo, in Id., Scritti sulla questione meridionale, Einaudi, Torno 1955, p. 106.) su base regionale tra Nord e Sud, bisogna che “[…] i federalisti debbano gridare che non è vero: non vi è lotta tra Nord e Sud; vi è lotta tra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni del nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione […]” (Ibidem), sia dopo la Prima che la Seconda guerra mondiale, il pugliese rilancia la sua proposta federalista su base comunale per contrapporla alle istanze regionaliste fatte proprie in Italia dai padri costituenti.
Dopo avere evidenziato nel primo dopoguerra i pericoli relativi ad un decentramento amministrativo senza che venissero coinvolte attivamente le masse popolari (Cfr. G. Salvemini, “Postilla” a G. Luzzatto, Decentramento o federalismo, in B. Finocchiaro (a cura di), L’Unità di Gaetano Salvemini, Neri Pozza Editore, Venezia 1958, pp. 584-587), animato dallo stesso spirito laico e democratico, che lo induce a cogliere la portata emancipante ed educativa o subordinante e de-formante delle relazioni sociali e politiche (Cfr. F.M. Sirignano, Salvatore Lucchese, Pedagogia civile e questione meridionale, Pensa Multimedia, Lecce 2012), nel secondo dopoguerra, Salvemini assume una posizione fortemente critica rispetto alle proposte regionaliste prima dibattute e poi approvate dall’Assemblea costituente, in quanto, secondo la sua prospettiva federalista che fa leva sull’autonomia comunale, sulla partecipazione e sulla costruzione dal basso dei processi socio-politico-culturali, le regioni sarebbero state, se attuate, degli enti amministrativi, che, privi di radici storiche, avrebbero moltiplicato i centri di potere calati dall’alto e pertanto non avrebbero avuto aderenza rispetto alla volontà popolare.

“Quel che occorre in Italia – osserva lo storico pugliese – non è sovrapporre catafalchi di ‘regioni’ buone a niente, si gruppi di province buone a niente. Occorre invece trasferire dall’Amministrazione centrale agli Enti locali (comuni e Province) fonti di reddito e funzioni, che appartengono malamente oggi alla burocrazia centrale, liberare quelle Amministrazioni locali dal soffocamento prefettizio, e poi lasciare che i cittadini, attraverso tentativi liberamente fatti ed errori pagati da loro stessi, imparino a poco a poco ad auto-governarsi” (G. Salvemini, Federalismo e regionalismo, in G. Arfé (a cura di), Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, Milano 1963, p. 634).

In estrema sintesi, quello proposto dallo studioso pugliese è un federalismo dal basso su base comunale, di lotta e di emancipazione delle classi popolari, che oggi torna di grande attualità sia rispetto alla stagione politica delle “Città ribelli”, sia rispetto alle istanze agitate dalle “Piazze del Sud” e dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, che si contrappongono al federalismo dall’alto estrattivo e discriminatorio in nome dell’uguaglianza, della solidarietà, della coesione dell’equità sociale e territoriale.