La Schachnovelle di Stefan Zweig e il tramonto dell’Occidente

Si potrebbe delineare nella produzione letteraria nata dalla deflagrazione del secondo conflitto mondiale una vera e propria letteratura della crisi, in cui emerge la minaccia del tramonto dell’Occidente e della fine della sua cultura. In questa faglia si colloca anche la voce singolare di Stefan Zweig, autore che meriterebbe senz’altro maggiori approfondimenti critici. Zweig paga il dazio della sua iniziale e incredibile fama, le sue biografie furono tradotte in numerose lingue e l’autore austriaco divenne una sorta di best-seller del tempo, tuttavia disprezzato dai suoi contemporanei più autorevoli. Gadda lo riteneva insopportabile, criticando beffardamente la sua capacità di introdursi in ogni salotto letterario, filosofico e politico. L’autore austriaco, travolto dal terrore del Nazismo, decise di fuggire in Brasile dove scrisse, poco prima del suicidio, la Novella degli scacchi; un ultimo grido narrativo di un uomo travolto dalla barbarie del proprio tempo. È un testo breve, che si colloca in quella costellazione di testi indicati come “minori” o “marginali”. Il narratore, un osservatore e “psicologo dilettante”, assiste e partecipa, a bordo di una nave da crociera diretta in America, a una memorabile partita di scacchi. Un miliardario americano, McConnor, patrocina una sfida tra il campione di scacchi Czentovic e i compagni di viaggio. Tra questi emerge, per straordinaria abilità, il dott. B.: alto borghese di Vienna, ex amministratore dei beni della chiesa austriaca, arrestato dalla Gestapo. In prigionia ha imparato a giocare a scacchi. La scacchiera è l’elemento che mette in moto l’intera macchina narrativa, ed è forse l’emblema dell’aristocratico scontro tra umanità diverse.

Conoscevo bene per diretta esperienza la misteriosa attrazione del “gioco dei re”, l’unico fra tutti i giochi escogitati dall’uomo che si sottragga sovranamente alla tirannia del caso e dia la palma della vittoria all’intelletto soltanto, o per meglio dire a una forma particolare di talento intellettuale. Ma non ci si rende già colpevoli di una limitazione offensiva, nel chiamare gli scacchi un gioco?

È percepibile nella narrazione l’antinomia tra Czentovic e il Dott. B., e la differenza del modo in cui i due personaggi fanno il proprio ingresso sulla scena del racconto ci conferma questo dualismo oppositivo. Da un lato il campione mondiale di Scacchi annunciato “da due o tre lampi al magnesio”, catturato dalla forma di testimonianza più concreta (la fotografia), dall’altro il Dott. B, che ha una parvenza di spirito, di fantasma. Quest’ultimo Interviene in un momento decisivo della novella per cambiare completamente il corso della narrazione. Più volte nel descrivere il misterioso “Salvatore degli scacchi”, si fa riferimento al suo pallore, come se nella sua fisionomia si rappresentasse il lento svanire dello slancio vitale dell’anima europea. Anticipazione di una sconfitta inevitabile.

Un signore di circa quarantacinque anni, il cui volto sottile e aguzzo mi aveva colpito già prima, sul ponte di passeggio, per il suo straordinario pallore quasi gessoso, doveva essersi avvicinato a noi negli ultimi minuti, quando tutta la nostra attenzione era concentrata sul problema.

Zweig opta per un incassamento di narrazioni: l’io narrante incontra un personaggio (Il Dott. B) che a propria volta racconta una storia in prima persona. Il narratore diviene ascoltatore e dunque assimilato e sovrapposto al lettore per un lungo tratto del racconto.
Quando il Dott. B. racconta il suo rapporto con gli scacchi, unica forma di resistenza mentre è tenuto prigioniero dai Nazisti, l’iniziale antinomia Czentovic/Dott. B. viene sostituita dall’opposizione Dott. B./ Nazismo. Non siamo davanti agli orrori di Auschwitz e dei campi di sterminio, ma a una forma di coercizione diversa, raffinata, tutta psicologica: il labirinto della scacchiera.

Mi avevano tolto ogni oggetto, l’orologio, affinché perdessi la nozione del tempo, la matita, perché non potessi scrivere nulla, il coltello, perché non potessi aprirmi le vene; perfino il più piccolo anestetico, come una sigaretta, mi veniva rifiutato. Non vedevo mai un volto umano, a parte la guardia che non poteva dire una parola né rispondere ad una domanda, non sentivo mai una voce umana; gli occhi, le orecchie, tutti i sensi non ricevevano da mattina a sera e da sera a mattina il minimo nutrimento, rimanevi disperatamente solo con te stesso, col tuo corpo e i quattro o cinque muti oggetti, tavolo, letto, finestra, lavandino.

Dopo lunghi mesi di prigionia e numerosi interrogatori, qualcosa di inaspettato accade: il Dott. B. riesce a rubare dal cappotto di uno dei suoi carcerieri un libro. Oggetto salvifico, che diviene uno strumento sul quale “legare” i propri pensieri e tentare un’ostinata resistenza alla reclusione.

Ruba questo libro! Forse ci riesci, e allora potrai nasconderlo nella cella e poi leggere, leggere, leggere, ricominciare a leggere finalmente! […] La prima occhiata fu una delusione e addirittura una specie di rabbia esasperata: questo libro rubato con così immenso pericolo, pregustato con così ardente speranza non era altro che un manuale di scacchi, una raccolta di centocinquanta partite magistrali.

Dopo aver imparato, ripetuto, assaporato ogni singola mossa, ogni singola partita, il Dott. B. decide di provare a giocare contro se stesso. L’io viene così scisso, in bianco e in nero, vincitore e vinto, ha inizio per il nostro protagonista” l’avvelenamento da scacchi” che gli consentirà, proprio grazie al conseguente crollo psichico, di ritornare libero. La follia, la malattia, la scissione interiore, divengono mezzo della liberazione.

Dovevo cercare di giocare con me stesso, o meglio contro me stesso.
[…] negli scacchi, in quanto gioco mentale puro, indipendente dal caso, voler giocare contro se stessi è logicamente un’assurdità.

La scacchiera inesistente della prigionia ritrova un suo corrispettivo oggettivo, un medium concreto, nella scacchiera presente sulla nave e attraverso la quale il Dott. B. decide di provare a giocare un’unica partita, una partita reale, con un avversario reale e con pezzi reali. Un’unica partita che si rivela fatale, un ritorno alla psicosi, alla scissione, all’irrealtà. Il Dott. B. che gioca sempre sei, sette mosse avanti, perde di vista la realtà. Crea uno scacco matto inesistente. Una vittoria apparente che si tramuta in sconfitta reale. La scacchiera diviene immagine e “idolo” di un conflitto bellico, di una crisi di natura esistenziale, di una società scissa che inevitabilmente tende al suo tramonto.

Ma il Re è in f7… è sbagliato, tutto sbagliato. Lei ha sbagliato a muovere! Tutto è completamente sbagliato su questa scacchiera… Il pedone è in g5 e non in g4…
Questa è una partita tutta diversa… è…

L’unico mezzo di resistenza, quel gioco dei re, elegante, elitario diviene inadatto, alieno dalla realtà. Ed è così che quella partita del secolo passa inosservata, tramandata alla memoria solo dal nostro narratore e conosciuta dai pochi passeggeri di una nave, luogo di transito e di passaggio verso un nuovo mondo.

S’inchinò e se ne andò, nello stesso modo discreto e misterioso in cui era apparso.