Apocalisse e palingenesi
C’è un vento di apocalisse nell’aria. Si respirano, inodori, umori di paure ancestrali. La percezione di una fine imminente si arresta ai bordi del linguaggio nella dimensione disarticolata della vertigine irrazionale. Ai confini dell’esprimibile si agita, come uno spettro dal fondo del tempo, la sensazione atavica che il mondo umano potrebbe finire irrimediabilmente. La pandemia globale ha ridato forma all’angoscia originaria dell’annientamento. L’apocalisse del genere umano è un urlo che emerge dalla notte, respinta, temuta, insopprimibile. La cultura dell’uomo si costituisce come baluardo contro il nulla, che è scoperta inquietante delle origini, stupore angosciante padre della conoscenza. Rintanata come una bestia selvatica nelle caverne degli istinti primordiali, occultata dall’abito culturale, anestetizzata dalla narcosi capitalistica, la paura di tornare all’indistinto non ha mai abbandonato gli uomini. L’apocalisse attraversa come uno spasimo soffocato le epoche e oggi si rivela intatta nella sua simbiosi con la condizione umana. Nell’accezione moderna l’apocalisse è intesa come una catastrofe cosmica, fine della storia e del mondo.
Eppure il significato etimologico di apocalisse è “disvelamento, rivelazione” (dal greco ἀποκάλυψις), confinante con l’area semantica della verità (ἀλήθεια, “ciò che non è nascosto, svelato”) e riguardante le rivelazioni sui destini ultimi dell’umanità e del mondo in una prospettiva escatologica. Il testo più noto a riguardo è sicuramente L’Apocalisse di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, che tuttavia non è l’unico del genere, vi sono anche l’Apocalisse di Adamo, di Elia, di Pietro, di Davide, di Baruch e di Enoch. In questi scritti profetici si svelano, si ri-velano, i piani ultimi di Dio, spesso associati ai concetti di resurrezione dei morti, di giorno del giudizio, di salvezza e perdizione eterne. Anche nell’Induismo, nel Buddhismo, nella mitologia germanica e in quella azteca vi è una profezia escatologica apocalittica, secondo la quale l’ordine perduto dell’universo sarà ristabilito. Apocalisse quindi come ristabilimento dell’armonia infranta e non come annientamento universale. Anche le antiche filosofie presocratiche prevedevano uno sconvolgimento ciclico ai fini di un ciclico rinnovamento, l’eterno ritorno, in un’alternanza necessaria di morte e rinascita; un’apocalisse quindi preliminare alla palingenesi (πάλιν γένεσις, “di nuovo creazione, che nasce di nuovo”). Lo stoicismo prefigura un’ecpirosi cosmica, un grande incendio, finalizzata all’apocastasi, il ristabilimento dell’universo nel suo stato di origine. Apocalisse e palingenesi coincidono, sono la fine e l’inizio, perpetuamente.
In termini storici non è mai accaduto evento rivoluzionario che non sia stato preceduto da un sommovimento poderoso della consuetudine, dello status quo, della tradizione. Nelle transizioni epocali che hanno generato nuove età della storia, l’umanità ha trasformato il passato attraverso momenti traumatici e sussultori. I grandi mutamenti della storia hanno avuto le premesse in una frattura, sono passati attraverso una crisi, sono emersi da una fine. Nel divenire storico, l’apocalisse è propedeutica alla palingenesi. Non è possibile rinnovamento senza annientamento. L’apocalisse contemporanea non ha tratti mistici o teleologici bensì appare come rivolgimento necessario e inevitabile della Storia. L’apocalisse presente viene da lontano, atto terminale della decadenza di un modello socio-economico degenerato, che non riesce più a creare prospettive di futuro né ad accogliere i bisogni profondi degli uomini, ormai intrappolati nella dimensione asfittica e distopica di un tardo capitalismo consumistico e cannibale. Il mondo come lo conosciamo si è configurato alla fine della seconda guerra mondiale, ha conosciuto l’ultimo fallito tentativo di rivoluzione nel ‘68, oltre alla parentesi rivoltosa dei No Global (crollata insieme alle Torri Gemelle nel 2001), e appare ad oggi logoro, conservatore, morente nei suoi stessi presupposti ideologici. Non accoglie più le aspettative soffocate della gioventù, non indica strade possibili e alternative, strangola i desideri, imponendo solo conformismo e smarrimento, respinge gli aneliti a un’alterità ormai irrimandabile. La palingenesi forse arriverà proprio a opera di una generazione che ha subito l’apocalisse. Una generazione che ha ereditato un mondo guasto e che conosce la privazione, che ha vissuto la parabola terminale di una realtà socio-culturale iniettata dalla categoria della crisi come consustanziale al modello stesso. Disastro ambientale, individualismo sfrenato, immani disuguaglianze economiche, assenza di prospettive esistenziali e sociali, impoverimento dei desideri, subdolo controllo totalitario, alienazione sono i nutrimenti con cui la generazione attuale è stata allevata. La parola crisi è un sostantivo ricorrente nel vocabolario della gioventù, a cui è stato tolto tutto senza la possibilità di dissentire. I giovani nati tra i due secoli-millenni sono cresciuti nell’isolamento, non lo sperimentano con la pandemia, è una dimensione etica strutturale: isolati dagli adulti, dalla virtualità, dalla società. Parcheggiati fino a tarda età, costretti a formarsi all’infinito, deprivati delle opportunità lavorative e di futuro, beffeggiati, giudicati e manipolati, derubati delle garanzie sociali e della salute, sommersi da una narrazione angosciosa e cupa, insignificanti in sede politica, vittime di un mondo di vecchi potenti che godono i privilegi di un modello che non hanno alcun interesse a cambiare.
Sono temprati all’apocalisse i giovani, sono pronti alla palingenesi.