L’università dell’indifferenza: tra tecnica e guerra
Recentemente, ho ascoltato una conferenza, tenuta in un’università italiana, sul tema della guerra. Per la precisione, l’oggetto, che faceva anche da titolo all’incontro, era il rapporto tra tecnica e guerra.
Una tematica che sollecitava grandi speranze: non sempre nelle aule dell’“accademia”, soprattutto di quella “umanistica”, si interviene direttamente su problemi così attuali. Addirittura si affrontava una questione interessantissima, strettamente connessa con l’esperienza che stiamo vivendo e che stimolava a una riflessione dirimente, anche al di là della guerra in Ucraina: il rapporto tra mutamento delle forme della guerra e sviluppo tecnologico delle armi, fino a quelle più recenti basate sulle intelligenze artificiali, che era, in fondo, il tema sotteso su cui si intendeva andare a parare (in fondo, sempre all’università stiamo…).
Abbastanza meccanicanicamente, si stabiliva un nesso tra: introduzione della mitragliatrice e guerra di trincea nella Prima Guerra Mondiale; introduzione del carro armato e ritorno alla guerra di movimento nella Seconda Guerra Mondiale; introduzione dell’intelligenza artificiale (in particolare dei droni) e ritorno alla guerra di trincea nell’attuale guerra ucraina.
La prima conclusione che se ne traeva, riguardava il comportamento delle forze in campo. In sostanza, l’idea, abbastanza main-stream, era che le Forze Armate Russe si fossero trovate impreparate di fronte alle nuove armi (occidentali, ça va san dire) perché ancora “sostanzialmente” legate alla vecchia idea tedesca del blitzkrieg.
Non avendo competenze in materia, mi limito a ricordare che non tutti sono d’accordo con quest’idea del vecchio e ammuffito comando militare russo. Anzi, think tank americani suggeriscono che è la NATO che si trova impreparata ad affrontare una guerra simmetrica e senza copertura aerea, diversa da quelle che ha potuto scatenare sinora con avversari molti più deboli (le due in Iraq, Afghanistan, Somalia, Serbia…), mentre molti generali russi già avevano riflettuto su modifiche da apportare alla strategia/tattica di guerra proprio osservando il potenziale distruttivo scatenato dalle nuove tecnologie durante la Desert Storm.1
La seconda conclusione, invece, era di respiro molto più ampio. Sintetizzo il ragionamento del relatore:
“Io sono un soldato di un battaglione. Abbiamo la missione di recuperare degli amici nel campo nemico. Penetriamo le linee nemiche, ma ci troviamo un nemico di fronte a noi “disattivato” – termine militare che significa “non offensivo”. Insomma, lui non ci vuole sparare. Noi possiamo farlo e non farlo. Abbiamo facoltà umana di decidere se risparmiargli o meno la vita.
Le più recenti intelligenze artificiali inserite nei droni, invece, questa differenza non la fanno: individuato il nemico, anche a lunga distanza, colpiscono a prescindere se il nemico è “disattivato” o meno.
Ora, accetteremmo noi una guerra del genere? Io, da militare – diceva il conferenziere – no, non la accetterei: una guerra del genere non la vorrei proprio.
Tuttavia, immaginiamo invece una macchina che, senza il giudizio del medico, a prescindere da decisioni umane, fosse in grado di salvare vite in campo medico. Questa la accetteremmo?
Io dico che: se accettiamo una macchina che non fa scelte tra salvare o non salvare vite, dovremmo anche per coerenza accettare quella che non fa differenza tra uccidere o non uccidere”.
Il ragionamento sembrava evocare una famosa canzone di Fabrizio de André, ma dell’intelligenza umana del cantautore aveva perso tutto.
Innanzitutto, per l’assunzione assolutamente irrazionale (nel senso di illogica) del fatto della guerra: della guerra come un fatto. Questa non viene mai messa in discussione. La guerra è un dato ineluttabile che sta lì. Probabilmente una forza metafisica (come per molti è la tecnica), cioè in ultima istanza non-umana, e quindi…amen. Al massimo si mette in discussione una forma totalmente distruttiva e “disumana” di guerra. Ieri, nella Prima Guerra Mondiale, l’uso del gas; oggi la macchina Terminator. È una guerra del genere che “proprio non la si vuole”, non la guerra in quanto tale. E vabbè, che ci vuoi fare: siamo militari, mica utopisti sognatori. Conclusione: non ci resta che aspettare l’armageddon oppure sperare che questa cosa venga regolamentata, che si stabilisca un nuovo accordo sulle armi da usare in guerra. E ripeto: da usare. Purtroppo su questa nuova regolazione tutti stanno zitti, diceva: l’Europa non pervenuta, gli USA hanno preso “altre decisioni” e in Oriente “si fa quel che si pare”.
Soprassiedo ancora sulla spocchia occidentalocentrica che più volte compariva nell’argomentazione.
Ancora più irrazionale mi è parso il legame tra uso della macchina per salvare vite e quindi uso “per coerenza” della macchina per distruggere vite senza alcun discrimine. Irrazionale, qui, sta a significare la totale mancanza dell’esercizio della ragione critica, quella facoltà stranamente umana di decidere, scartare, accettare e rifiutare. C’è infatti una differenza abissale tra salvare vite e distruggerle, e l’uomo è proprio quell’essere che – almeno finora – è capace di valutare una differenza tra le due, al punto da poter anche preferire la morte. Ma pure la vita. Il ragionamento del nostro conferenziere, insomma, è precisamente il ragionamento della macchina killer che non fa sconti a nessuno: ammazza a prescindere, come il nostro conferenziere non fa differenze tra uso della tecnica per salvare vite, e uso della tecnica per ammazzare. Se accettiamo l’una, accettiamo, “per coerenza”, l’altra.
Il che ci dà la palese misura di quanto l’università si stia allontanando dalla vita reale non solo del nostro Paese, che è ancora diviso sull’opportunità addirittura di inviare armi in Ucraina, ma dall’uomo di oggi. Tanto che non è possibile venderci la necessità di inviare le armi senza dare al contempo la speranza che questo porterà alla pace, come se non sia proprio possibile produrre un argomento razionale a sostegno della sola guerra. Evidentemente c’è un nesso nascosto tra ragione e vita che argomenti come quello di sopra mirano a spezzare, legando la ragione umana alla morte.
Il discorso viene invece del tutto a conferma dell’attuale stato dell’università italiana, sempre più asservita alle forze militari nazionali e internazionali.2 Quello che mi ha colpito di più, infatti, è il mormorio di assenso che veniva fatto al discorso sulla “coerenza” della scelta della macchina killer e quindi della macchina salva vite. Un assenso che rivela lo sdoganamento totale di due assunti: siamo destinati alla guerra; siamo destinati a guerre sempre più tecnologiche (che bello!) e sempre più distruttive. Ma questo, in fondo, è solo una delle due facce, suvvia: la stessa tecnologia, infatti, può salvare le vite…
Qui il secondo livello dell’ideologia, quella più specificamente universitaria e ancor più occidentalistica. Non si tratta solo nell’inusitato senso di superiorità nei confronti di tutto ciò che è “orientale” (perché, si sa, tutti gli orientali sono musi gialli – giapponesi, coreani, cinesi: una razza, una faccia; oppure sono mongoli e quindi in fondo ancora inferiori, nomadi: russi su tutti!), ma compare più a fondo nel ben noto argomento della neutralità della tecnica: l’indifferenza della tecnica rispetto alla morte e alla vita, rispetto agli scopi per cui può essere utilizzata.
E questo mi ha ricordato le riflessioni di un pensatore, Herbert Marcuse che, proprio per aver messo in questione il paradigma della neutralità della tecnica rispetto allo scopo, fu sonoramente castigato da buona parte degli intellettuali “ortodossi” degli anni Sessanta e Settanta.
In verità, il punto di Marcuse non era affatto condannare lo sviluppo delle forze produttive, ma la loro organizzazione in una totalità “tecnologica”, cioè secondo una specifica forma organizzativa gerarchizzata e orientata alla crescita infinita della produttività, dell’efficienza, sorta nell’organizzazione del lavoro in una certa fase storica, quella della centralizzazione monopolistica, e poi di lì diffusasi su tutto lo spazio sociale fino a diventare ciò che definisce l’universo di discorso e di comportamento considerato “razionale”, giusto, legittimo, obiettivo, necessario. Già nel 1941 scriveva: «in sé la tecnica può promuovere tanto l’autoritarismo quanto la libertà, la penuria quanto l’abbondanza, l’aumento del lavoro faticoso quanto la sua abolizione». E faceva l’esempio del Terzo Reich: «nella Germania nazista il regno del terrore si regge non solo sulla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche sull’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia stessa: l’intensificazione del lavoro, la propaganda, l’addestramento dei giovani e degli operai, l’organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito – tutti strumenti del terrore quotidiano – si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica». Anzi, proprio questa forma tecnologica – distinta dallo strumento tecnico, dalla singola macchina – applicata a tutte le sfere dell’esistenza era ciò che faceva più terrore.
Il punto di Marcuse era proprio attaccare questo legame che, inesorabilmente, si stabilisce nella società innanzitutto capitalistica – e per Marcuse in quel socialismo (sovietico) che ha accettato (o è stato costretto da contingenze internazionali) di competere sul piano di tale sviluppo con il capitalismo avanzato – tra sviluppo delle forze produttive e sviluppo delle forze distruttive, al punto da avere entrambi gli opposti: «la prosperità» delle società industriali più avanzate «nasconde l’Inferno dentro e fuori i loro confini»3, scriveva nel famoso Uomo a una dimensione.
Quest’appiattimento dell’opposizione nella “unidimensionalità” della neutralità tecnologica è quindi falsa, per quanto maledettamente reale. Proprio il fatto di non poter che promuovere entrambe le cose, la rende figlia di una società storica contraddittoria e nient’affatto “neutrale”, in cui la soddisfazione (all’epoca, siamo negli anni Sessanta) viene utilizzata per «perpetuare la penuria – una penuria prodotta in modo sempre più artificiale, il bisogno di un’abbondanza di beni, sempre più numerosi e nuovi» e che, quindi, costringe gli uomini a continuare a «spendere le loro vite nella lotta competitiva per l’esistenza, per soddisfare il bisogno di sempre maggiori prodotti del lavoro, e i prodotti del lavoro devono aumentare, perché bisogna venderli con profitto, e il saggio del profitto dipende dalla crescente produttività del lavoro. In un linguaggio meno ideologico, lo si è definito legge dell’accumulazione del capitale».4 È il capitale, e non “la” tecnica ad essere in sé indifferente al fine: è il carattere del capitale quello di doversi investire indifferentemente nella produzione di morte o di vita. Non interessa al capitale lo scopo della produzione, ma la sua profittabilità. Tuttavia giunto a un immenso sviluppo, esso non può non investire nella distruzione di ciò che produce, perché altrimenti tale sviluppo infinito sarebbe del tutto ingiustificato. Ottundere gli uomini, manipolarne i bisogni, creare mancanze fittizie, servizi non necessari, sprechi, obsolescenze pianificate e eliminare chi non è integrato nel sistema: in una parola, distruggere, è l’altro volto dell’immensa crescita della produttività del lavoro in un sistema che non può liberarsi dal lavoro, perché è dal suo sfruttamento che trae profitto. È in questa società che si produce l’apparenza necessaria che lo sviluppo delle forze produttive sia neutrale, cioè sia in quanto tale un bene universale per tutti, coincidente col progresso umano tout court, sempre e comunque, a prescindere dal grado che ha raggiunto, e che quindi non vada a favore, oggi, di una qualche classe a danno di altre, ma, appunto, di tutti. Si producono pertanto anche strumenti effettivamente capaci di promuovere entrambi: destinabili ad ogni uso, basta che lo facciano nel modo più efficiente possibile.
La fine delle ideologie: lasciare spazio ai tecnici. È un nuovo argomento ideologico che giustifica fin troppo facilmente l’attuale sistema, che si basa sull’accumulazione allargata degli uomini e degli strumenti di produzione. Forse non vale neanche la pena approfondire troppo il ragionamento di Marcuse: oggi sappiamo bene quanto l’appello al “lasciar fare ai tecnici” nasconda interessi politici ed economici molto ben determinati.
La domanda che Marcuse ci lascia, però, resta: una volta affermato il carattere storico della neutralità della tecnica, non è possibile su basi storiche, una nuova tecnica che, invece, escluda e rifiuti il lato negativo dei suoi “effetti”? Una tecnica fatta e sviluppata per la pacificazione dell’esistenza e strutturalmente, fin dentro i suoi concetti scientifici, incapace di sviluppare concetti e strumenti volti alla lotta per l’esistenza?
Questa domanda deve tornare a tormentare le menti che ancora vogliono ragionare e, in questo, lo sragionamento del conferenziere lascia ben sperare. La macchina “intelligente” killer che ha descritto, infatti, è proprio una macchina indifferente, che uccide a prescindere da tutto. Questo ci dice che l’ideologia dell’indifferenza del capitale si è fatta prodotto, uno strumento che oggettiva una precisa visione del mondo e a sua volta la riproduce. Ancor di più perché è automazione di un’intelligenza, di una certa intelligenza. Ma una volta che un certo rapporto sociale di produzione è diventato esso stesso forza produttiva, come vale per il primo, varrà anche per la seconda la legge dialettica che: tutto ciò che è razionale è reale, il che significa che tutto ciò che è esiste merita di perire.
Una tecnologia di parte è pensabile e praticamente producibile a livello universale oltre questa società, in una fondata non sull’indifferenza del profitto ma sulla soddisfazione dei bisogni individuali decisi dagli individui stessi in vista della promozione dell’uomo nella sua complessità. È ambito di una società socialista autentica ed è il discrimine per misurarne l’autenticità, per stimolare alla sua costruzione oltre ogni stadio raggiunto. Ma bisogna cominciare a costruire già dentro questa società capitalistica caratteri umani e quindi strumenti pronti per edificare nuova società e incapaci di sostenere l’organizzazione esistente: incapaci alla competizione, incapaci alla guerra, incapaci alla distruzione della natura, incapaci, diceva Marcuse, di un’altra Auschwitz.
Ecco perché il mondo dell’educazione divenne all’epoca, e deve tornare ad essere anche oggi, (uno dei) luogo di conflitto. Lì dove possibile, si può già agire nei luoghi del sapere: contro quest’università asservita alla guerra. Bisogna prendere parte e rifiutarsi, come pure alcuni fisici hanno già fatto, di asservire l’intelligenza umana alla distruzione. Bisogna rompere, scriveva Marcuse, «con la neutralità benevolente che mette insieme Marx e Hitler, Freud e Heidegger, Samuel Beckett e Mary McCarthy», educando gli studenti ad «una tolleranza e un’obiettività che operano in ogni caso solo nel regno dell’ideologia e in ambiti che non minacciano l’insieme». Compito del formatore è, invece, educare «alla parzialità» il cui principio potrebbe essere quello gramsciano: odio gli indifferenti.
Sarebbe «un’educazione singolare, del tutto impopolare e non profittevole» che avrebbe dei contenuti ben precisi:
«l’immunizzazione dei giovani e degli adulti contro i mass media;
un libero accesso all’informazione, soppressa o distorta da questi mezzi;
una sistematica diffidenza nei confronti di politici e leader, la diserzione delle loro uscite pubbliche;
e l’organizzazione di una protesta e un rifiuto reali, tali da non concludersi necessariamente col sacrificio di coloro che protestano e rifiutano […].
Certo, simili finalità formative sono negative, ma la negazione costituisce il lavoro e la manifestazione del positivo, che deve prima creare lo spazio fisico e mentale in cui possa venire alla luce – e ciò implica la rimozione dell’apparato devastante e soffocante che occupa ora questo spazio».5
1 https://mwi.usma.edu/the-russian-way-of-war-in-ukraine-a-military-approach-nine-decades-in-the-making/
2 Si vedano le recenti esercitazioni NATO in Sardegna col supporto di “consulenti” tratti da studenti universitari: https://www.infoaut.org/conflitti-globali/sardegna-esercitazioni-di-guerra-globale-con-consulenti-studenti-universitari.
3 Uomo a una dimensione¸ p. 244.
4 L’individuo nella Grande Società, p. 183.
5 L’individuo nella Grande Società, pp. 200-201.