Tre gocce di chissà cosa

Dormiva, come sempre dopo il Seropram. Dall’ottavo gradino giunse un colpo improvviso. Spalancò gli occhi nel buio. La mano lo cercava nel letto, ma Lui non c’era. Sentì un rumore di passi, irregolari, pesanti, come quelli di chi avanza barcollando. L’uomo misterioso che saliva lungo le scale forse aveva bevuto più del solito, o forse era un killer diabetico, ipoglicemico, a corto di insulina. No, semplicemente perdeva la simmetria dei passi perché intento a leggere le dettagliate istruzioni della sua mandante. Era di certo stata la sua matrigna ad assoldarlo. Non fece in tempo a urlare, misurato e inesorabile il polietilene dei guanti esercitò la sua brutale indifferenza sul pulsare febbrile delle arterie. «Quanto spreco di fiato!», pensò della sua vita, ora che il fiato era un bicchiere ormai scolato, mentre la Madonna del Comodino la fissava con la sua misericordia di gesso. E tutto le sembrò stupido come una pietra.
Al settimo gradino vibrò un rumore continuo. Girò lo sguardo. L’ombra di un dispositivo le veniva incontro con piedi cingolati. Non credeva ai suoi occhi. Chi sei? Dalla sua bocca non uscì che un urlo insensato. Il meccanismo sollevò il suo braccio ipnotico e lucente, lei lo fissò restando immobile, e quando la fibra di carbonio delle dita fu all’altezza del suo petto, vide una lingua di fuoco esploderle dentro. Un dolore muto, un urlo subacqueo, la spezia ferrosa del sangue le salì alla bocca, schizzarono motivi sul candore dei denti. Si chiese dove fosse sua madre, quella vera, quella buona, di certo doveva essere da qualche parte, ma dove si era cacciata? Un secondo proiettile la raggiunse, poi un terzo come un amen. Luccicante nel buio il cyborg chinò la schiena sul suo ventre, la cellula fotoelettrica dei polpastrelli registrò la definitiva assenza di polso arterioso. Ma non bastò a fermarlo. Lei alzò una volta ancora il braccio, partì un quarto bum bum, un quinto inutile bang bang. Ormai non era più solo robotica efficienza a sparare, chiunque telecomandasse quella macchina infernale – ed era sicura fosse ancora lei, strega usurpatrice del nome di madre – ora ci stava prendendo gusto.
Il sesto gradino fu un succedersi di biscrome. Qualcuno nel buio aveva iniziato la sua rapida corsa verso la carne ruspante della preda. Fu assalita dal terrore, provò a scappare, si dimenò disperata, ma non c’era più niente da fare. Il vecchio arrivò come un sasso sparato dalla fionda, e a tirare l’elastico era ancora lei: «Va’, è tutta tua, e poi fai quello che devi fare!». Ora la scartava come una rossana, prendeva la sua ricompensa prima di fare quello che doveva fare. Era il barbone di Piazza Piemonte – ci avrebbe giurato – da piccola lo ricordava bene, le mostrava ogni volta la sua ritta indecenza come la canna da pesca del nonno, ora l’avrebbe fatta sua tra la puzza di chi non si lavava da sempre, ansimando di piacere e saliva sul suo seno, leccandola come un francobollo con la sua lingua giallastra, tremante di malattia cronica e di piacere arretrato, l’avrebbe sporcata di tutta la sporcizia del mondo, prima di fecondarla con la sua orrida schiuma, e solo dopo avrebbe fatto ciò che ora ha iniziato a fare: le toglie la lingua dalla sua bocca, ci infila dentro un sorcio schifoso rilucente di fogna, il suo viscido corpo le riempie il palato, scende nello stomaco come in una dispensa, fa tana nel fegato, defeca nella milza, e finalmente assesta il suo ultimo morso sul cuore.
Il quinto gradino risuonò come un tamburo. Pensò subito a Duke, il mastino che solo la perfida matrigna poteva avvicinare, aveva sbranato il micio della vicina sotto i suoi occhi, un demonio alla catena. Duke non perse tempo, ignorò braccia e gambe, le infilò dritto i denti nel collo, poi prese a rotearlo come a volerglielo staccare. La sua bava prese a scendere sulle guance, si sentì come il facocero del viaggio in Serengeti, lo aveva visto dimenarsi disperato, lo aveva sentito urlare, ma ora era lei nelle fauci del predatore, e intanto dalle scale saliva una voce lenta e persuasiva come un mantra: «Attacca Duke, attacca!». Era sicura fosse ancora lei, che lo incitava da lì, che si masturbava a ogni suo urlo, madre non madre.
Al quarto gradino bucò il silenzio un tacco a spillo. Era venuta lei di persona a vaporizzare sulle sue narici la boccetta di profumo al sapore di mandorle amare, che stravolge i recettori, che irrigidisce i bronchi. La sentì distendersi sul suo corpo, accarezzarle la fronte, una paralisi la teneva inchiodata al sonno, mentre il cianuro di potassio le iridava la pelle di un definitivo arcobaleno. Fu allora che incontrò le sue pupille al neon, la matrigna la osservava soddisfatta per il suo lavoro pulito, ben fatto, come quando a Natale finiva l’anguilla immergendola nell’acqua bollente: niente macchie di unto, niente deiezioni, sul lavello ci si poteva anche specchiare, proprio come ora, ora che il suo corpo se ne sta mansueto e lindo come un’orata bollita, distesa nel suo cartoccio di cotone antiacaro.
Al frastuono del terzo gradino ricordò che non aveva mai avuto una matrigna, solo una sorellastra. Suo padre l’aveva avuta da una donna misteriosa conosciuta in Cambogia, o forse nel Corno d’Africa. Ed era certo l’orda di tutti i suoi amanti quella che ora saliva contorcendosi lungo le scale, rimando litanie trap e fumando erbe sintetiche sotto lunghi passamontagna, come un’ossessa processione di incappucciati. Poi, uno di loro, che sembrava il capo, premette con forza il cuscino sulla sua faccia fino all’ ultimo respiro, e allora tutti insieme si levarono il cappuccio e presero a saltare sul suo ventre molle come nel catino dell’uva pesta, mentre ebbri del mosto sanguigno si toccavano il pacco rigonfio, pronti alla ricompensa dell’amante.
Un rumore felpato la raggiunse al secondo gradino, un tintinnare di sonagli le ricordò che la sorellastra era stata una ginnasta olimpica, ora saliva lungo le scale in splendida verticale, con la testa in giù e i piedi per aria, dal collo le penzolavano tutte le sue medaglie, mentre alla caviglia sinistra faceva roteare una palla chiodata legata a un filo. Quando le fu a un passo, flesse la gamba e diresse la palla sul suo volto, e allora un chiodo si infilò nella sua narice, l’altro schizzò dall’occhio grumi di sangue e gelatina d’iride come un uovo alla coque affogato nel sugo, tutti i denti fecero strike e finirono sul materasso. Non ebbe il tempo di disprezzarla né di applaudirla, si vide riversa sul letto, mentre la sorellastra se ne stava in verticale dinanzi alla perpendicolare del suo corpo inerme, l’angolo retto le consegnò un attimo di compiuta quiete euclidea, poi la vide girare i palmi, e perfettamente eretta nei suoi arti superiori, facendo risuonare i suoi dorati sonagli, se ne andò via.
Al secondo gradino il padre imprecò che non era lei la sua vera figlia, lo aveva scoperto solo un attimo prima, ora veniva a vendicarsi, per le colpe della madre, per una menzogna durata tutta una vita, per un tradimento che gli bruciava fino al buco del culo. Non voleva che restasse nulla di lei, della prova vivente del suo disonore: riempì la vasca di fluoroantimonico, prendendola tra le braccia la infilò dritta nel sudario termale, e allora uno dopo l’altro anche l’ultimo lembo di pelle ribollì come brodo dinanzi agli inflessibili occhi paterni, poi divenne fumo.
Stremata, al primo e ultimo gradino, accanto alla tazzina del caffè in cui Lui aveva lasciato cadere tre gocce di chissà cosa, vide un’immagine straniera venirle incontro dallo specchio, lacerando il buio. Aveva nelle mani una mancanza di mani che si spandeva dappertutto, i capelli sfinivano in alopecie, come piccoli elfi un’infinità di cazzi le penzolavano lì dove un tempo aveva la vagina, marchiato in fronte aveva qualcosa scritto in lettere misteriose che non le sembrò il suo nome: si infilò nel suo ombelico, la sentì nella sua pancia, respirò nel suo torace, si legò alle sue ossa, e quando ebbe il pieno controllo di se stessa, vide il suo corpo levarsi in piedi, stagliarsi contro qualcosa che le sembrò un’alba ancora fresca di tramonto, il freddo marmo le ricordò che aveva ancora i piedi. Iniziò a trascinarsi, prese a camminare, le sembrò di correre, così forte che perse il controllo delle gambe, la finestra, che Lui aveva lasciato aperta, le si mostrò dinanzi – fu allora che sentì il suo urlo, ma era un urlo stonato – allora chiuse gli occhi e si ritrovò in volo. E non provò a volare.