L’abbandono

Quando il tuono esplose, i suoi piedi toccarono la roccia. Era passato un tempo lunghissimo dalla sua ultima incarnazione. Era una costrizione dolorosa rinchiudersi nella carne, di gran lunga la forma corporea che più non gradiva tra quelle del mondo. Se non altro, dopo tanti millenni, aveva perso le piume, un supplizio a cui era stata costretta prima che gli dèi cominciassero a perderle tutti, con la loro caduta. Era stata una spinta evolutiva, la divinità si stava spostando dall’aria alle acque, e tanti altri dèi avevano odiato il lato alato della loro forma fisica: ma nessuno come lei.
Le ali erano pesanti, le piume odorose, i muscoli su cui si innestavano i lunghi attacchi innervati, cosa che le provocava una sofferenza perpetua, un innesco dolente che, una volta generato, si centralizzava nelle membra, e lì si trasmetteva e ritrasmetteva in una corrente eterna, che non le dava tregua. Le ali erano grandissime, e pur con tanta resistenza non riuscivano mai a combattere le correnti, che la sbattevano ovunque, e i monti le avevano ridotto il corpo a una ragnatela di lividi e cicatrici. Per secoli le dita fuse anteriori e le sacche aerifere l’avevano resa un mostro estinto.
Quando avevano perso le ali, in un’alba buia in cui erano tutti precipitati in basso, lei s’era ritrovata in mare. Tanti avevano colonizzato i monti e le alture, tanti le pianure, pochi il mare. Il mare era violento, acidulo, e piano li avrebbe inglobati nelle sue insenature profonde, nel buio oltre il visibile, e nessuno li avrebbe più chiamati. L’evoluzione degli dèi marini era più accelerata e seguiva il destino degli uomini più degli altri, rintanati tra le nevi, poiché ancora sul mare gli uomini si giocavano i loro desideri. Sulle sue sponde si lanciavano in avanti, in cerca.
Il loro corpo aveva ora la stessa forma degli uomini. Erano nello stesso momento evolutivo, tra la perdita delle forme aeree e l’adattamento ai fondali. Adesso ancora riuscivano a mutare forma e farsi simili: gli uomini anche, volendolo, avrebbero potuto farsi della forma di un dio del mare, capace di generare un terremoto sottomarino se avessero lasciato vivere la passione del loro spirito, se avessero ascoltato l’origine vitale del mondo, lo scorrere del tempo che univa le forme d’essere; se ancora avessero solcato i mari in cerca della terra, per superare i confini, per inventare civiltà, e non solo per mettersi in salvo o disperarsi sulla battigia. Ma non lo facevano quasi mai, e per questo gli dèi intervenivano ancora. Gli dèi dei monti le raccontavano tuttavia che lustri e ventenni passavano senza che i villaggi di montagna dissonassero, le comunicazioni erano spente e gli spiriti latenti e gli dèi delle rocce s’erano trasformati in stalattiti; a macchia di catrame, anche le città delle coste si spegnevano una dietro l’altra, e sempre meno gli spiriti si chiamavano tra loro. Ariadne non incontrava un dio dei mari da moltissimo tempo, come una balena in via d’estinzione. Alle volte sospettava che qualche corallo speciale, una forma accartocciata o con un colore inusuale, come un giallo brillante, fosse una dèa trasformata da poco. Il peso evolutivo aveva reso la divinità sempre più simile agli uomini, ma poi la stava degradando ad altre specie animali, e infine avrebbero raggiunto il regno minerale.
Anche quell’alba era buia. Ariadne, ritta sulla costa col cielo nero dietro e rosa davanti, vedeva gli alberi spogli dell’inverno infuocati dal sole basso, la corrente fredda le gelava la pelle con pochi peli, e pensava a quando sarebbe sprofondata nel buio, incastrandosi in qualche insenatura di coralli come un cadavere di balena o come frammento di scoglio o conglomerato di sale. Abbassò lo sguardo sui piedi nudi. Le dita erano separate, ma le unghie erano rimaste leggermente artigliate e i talloni erano completamente screpolati. La pelle del collo e della parte alta della schiena, invece, stava assumendo le increspature delle branchie acquatiche, e le falangi delle mani si stavano palmando. La voce che la chiamava disperata lamentava da lontano, ma lei attese. Guardò ancora il suo corpo, prima di donarlo a lei. Tornò nell’acqua viola e nuotò per un po’ lungo la costa, in cerca di un’insenatura fangosa.
Si issò sulla sabbia pesante. Seduta, poggiò le gambe alle rocce alte e vi strofinò la pelle, che si liberò dello strato superficiale di cellule morte. Si strofinò la sabbia fangosa sulle braccia e sulle gambe, e poi in mezzo alle gambe, e poi dietro, strofinò con cura, precorrendo la passione che quella voce chiedeva indietro dal marito distratto. Con una lametta dagli scarti del mare recuperò i fili zuppi dei capelli e tagliò fin dove vedeva, e poi trasse un poco di colore dai minerali per colorarli per bene a partire dalle tempie. Con macina di conchiglie ripulì la superficie dei denti e tolse le pellicine dalle labbra. Indossò le vele strappate dai relitti, avvolgendo il pube col movimento opposto che la mano del marito avrebbe compiuto solo qualche anno addietro senza noia; avvolgendo i seni, che nelle cene tra amici decantava come i più belli che avesse mai visto, ma non avendo più voglia di stringere come se da un momento all’altro stesse per caderle tra le braccia, con disperazione, quindi, e paura dell’abbandono; avvolgendo i fianchi un po’ troppo larghi per la moda corrente, e i piedi artigliati, che Ariadne carezzò come potesse renderli belli quanto quelli della moglie, che una volta lui aveva amato anche accaldati, dopo che rientrava dalla corsa. Si rialzò. Alle volte si sbilanciava in avanti, perché era difficile la stazione eretta dopo secoli di forma liquida, e poi perché ancora sentiva il peso delle piume innervate sulla schiena, quando le facevano da mantello e toccavano terra.
Il desiderio frustrato della donna era più sopportabile del nulla attutito del mare, dell’eco cristallina dell’alta atmosfera, del silenzio degli alti monti. Pure, era un’angoscia cui gli dèi non erano mai abituati, nonostante il lavoro millenario, a sopportare. L’innervazione dell’organo del cuore era inusuale nel regno corporeo: nessun animale soffriva la mancanza e la sofferenza con le pareti degli atri, nessun animale moriva di un male del cuore causato dalla passione o dalla gelosia. Quando Ariadne si fece donna, e quel cuore si riempì di tutto – della mancanza, della frustrazione, della gelosia verso se stessa, una dèa marina che aveva vissuto al di sopra del pianeta, persa tra le correnti astrali oppure tra gli scogli profumati nei giorni estivi – il dolore era peggiore che quando era costretta a battere le ali. La sofferenza di quel corpo acuì quella del suo, di ogni cambiamento del suo aspetto, dalle prime cicatrici sugli spigoli alti ai ripetuti affogamenti prima che i polmoni si chiudessero all’aria, e poi si fusero: sentiva ogni disagio di lei, che aveva partorito un figlio non atteso, che aveva voluto amare un uomo che chiedeva più di quanto le aveva dato indietro, che pretendeva di essere molto desiderato, quando in lui il desiderio si frammentava continuamente, e anche verso la dea stessa – la moglie che quella notte entrò in camera profumata di sale, con un impeto inusuale, fatto di lontananza – divenne incendio. Allora il rimpianto della donna divenne il suo, che veniva posseduta in altra forma, ma non la propria.
Si sentiva d’un tratto gelosa del corpo della moglie, che era umano, non lontanamente bello quanto il suo nella sua forma libera, quando seguiva le correnti sotterranee fino alle sorgenti calde, quando affondava tra i picchi d’onda e la schiuma che si sfrangiava alla luce del primo sole, e che però era stato amato. E che era stato fatto sua casa, un suo possesso, una sua abitudine, di cui conosceva le imperfezioni, come i talloni screpolati e le cicatrici cheloidi dove avevano tagliato per far nascere il figlio, e che però non trovava rivoltanti, come lei trovava rivoltanti le cicatrici delle ali.
Quando una nuova alba sorse, nera sul mare e rosa sulla costa, Ariadne lasciò il letto del marito e il corpo della moglie. Osservò, in forma di nebbiolina di rugiada, col naso aderente alle sue forme, la carne di lei, l’intreccio delle mani di lui che la tenevano con urgenza, il sesso lubrificato, diverso dal suo – incrostato di sale e che cominciava a chiudersi per la forma di pieghe anfibie – le crosticine di sudore dietro le orecchie, le macchie della pelle sulle palpebre, i peli leggermente lunghi sotto le ascelle. Strinse il suo corpo marino con urgenza, come se stesse scivolando sul fondale dell’oceano, e rivisse l’abbraccio di quella notte; il cuore dilatato ancora era impresso sulla sua cassa toracica, come il peso delle ali che la sbilanciava indietro.
La dèa dell’abbandono uscì dalla camera da letto.
Si rispogliò dalle vele e già i piedi si erano sgretolati in croste di sale. Guardò il mare scuro consapevole che nessuno l’avrebbe pregata tanto presto. Sentiva il silenzio della costa accordarsi al battito attutito del suo cuore che, come quello dei pesci, non sentiva la mancanza sulle corde tendinee del cuore. Si stava già facendo onda. Bramò solo quel talamo sfatto per un istante di troppo, prima che le branchie si estendessero sul collo, e le palme sulle mani, e le pieghe chiudevano il suo sesso, e la sua pelle si faceva durissima, quasi cartilagine dura, quasi epidermide ossea. Per un po’ di secoli sostò sulle correnti basse, quelle ancora calde. Poi sprofondò, pulsando piano piano come un antico cuore, fino a incastrarsi in un’insenatura degli abissi, tra le correnti glaciali, lontana dalla luce.