Auto da fé

Soldi in tasca non ne ha, il papà mio. È un povero disgraziato. Lo dice lui, mica io: disgraziato che non sono altro, dice e ripete. Non si capisce quale delle due sia venuta prima, se la povertà o la disgrazia; o se la disgrazia sia quella della povertà, o la povertà della disgrazia.
Soldi in tasca, se per questo, non ne ho manco io. E nemmeno una tasca, una taschetta, un taschino. E nemmeno un papà vero e proprio. C’è questo tizio che chiamo papà per convenzione, per simpatia paterna, appunto (ma che lo si intenda e chiami come si vuole), che mi vuol bene e ha cura di me, e da qualche tempo non fa che portarmi appresso ovunque vada. L’altro giorno, dal barbiere, mentre leggendo aspettava il proprio turno, un suo vecchio amico gli ha domandato se leggesse ancora da mattina a sera (lo ricordava immerso in letture strampalate sin dai tempi del liceo; e dove trovasse il tempo per le femmine – e lo trovava, eccome se lo trovava – restava un mistero). Mio papà, uomo di poche parole, ha fatto cenno di sì con la testa, al che Orazio, il barbiere, gli ha chiesto cosa stesse leggendo. “Ecco”, ha risposto lui mostrando la copertina, e tutti a fare “ohhh”, e pure io che non mi aspettavo di suscitare tanta impressione, bella o brutta che sia.

Che ci crediate oppure no, io la mia copertina non l’ho mai vista. E dirò di più: io non riesco a leggermi, non conosco la storia che dipanandosi mi percorre; così i contorni della lingua, l’atmosfera, il ritmo. Incredibile a dirsi, non conosco l’autore. Io non so di cosa parlo, qual è il mio aspetto, il mio scopo ultimo. Che sia quello di intrattenere? Di far passare il tempo? O forse sono oggetto (e tramite) di finalità ben più alte?
Non mi è dato saperlo.
Se tenuto a riposo, sonnecchiante ma vigile al contempo, trovo posto nei miei luoghi speciali: il fondo di uno zaino o il comodino; cantuccio e belvedere. A naso, pur non avendolo (idem gli occhi, eppure vedo) mi pare di essere in buona compagnia: nello zaino condivido lo spazio con un taccuino e un tale che di cognome fa Bufalino. Sul comò sto in cima a una colonna di miei simili; da qui vedo ben altre colonne libresche, volumi sparsi e scaffali ricolmi. Ammassi di titoli e nomi. Sarò sincero: io tutti questi signori e signore, rispettabili scrittrici e scrittori, non so chi siano. Laddove i titoli, ancorché fuorvianti, se messi assieme qualcosa mi dicono, degli autori e in buona parte del lettore.
E io? Io cosa dico?
Inutile confidare in probi ma improbabili suggerimenti: tra noi libri non ci parliamo. Ci sogguardiamo a vicenda dagli angoli più remoti della camera, ci percepiamo flebilmente se posti nelle vicinanze; saggiando peso e consistenza, qualcosa proviamo nel toccarci quando affiancati. Talvolta, sbirciando l’altrui quarta di copertina, ecco sbocciare l’illusione di conoscerci meglio, o quanto basta. Ma quel poco che l’altro sa di noi, noi non lo sappiamo.
In un certo senso comunichiamo, per mezzo di colui che, leggendoci, ci lega a sé e ci accomuna. Immagino banchi di parole, di frasi fluttuanti tra i suoi pensieri e umori, talune capaci di spiccare balzi e far piroette, altre di sedimentarsi nel suo fertile fondale. Lui sì che s’è fatto un’idea del nostro scopo – e non potrebbe essere altrimenti, giacché in caso contrario non si spiegherebbe una tale quantità di libri, l’assidua lettura, il prenderne uno, carezzarlo, sfogliarlo (finanche annusarlo, giuro!), prendere questo e quest’altro e quello riporlo con un segnalibro tra le pagine e questo affiancarlo a un terzo, sul quale ritorna munito di quel suo matitone rosso e blu per sottolineare –, eppure non c’è giorno che io non mi domandi in cosa consista il nostro scopo ultimo, cosa ci trovi lui in noi, in me, mucchio di carta, acervo di parole, immobile a meno che non mi si sposti, inservibile (sebbene laggiù v’è un dizionario che fa da piede alla scrivania, e lassù un ‘mattone’ buono a reggere tutti gli altri; per non parlare delle pagini facili a bruciare, casomai servisse un focherello…).
Invero abbiamo, per così dire, un certo intuito. Ad esempio: a me pare di essere stato io a scegliere lui, il papà mio, intendo. Io che non ho moto né potere, privo di voce per chiamare, ammaliare, pregare, privo di mani per toccare, prendere, accarezzare, io che a stento mi sento esistere, io che niente so e niente provo, inanimato, io povero disgraziato (ma sentitemi!), povero povero disgraziato che non sono altro – come potrei scegliere da chi essere scelto? E più in generale: se la somiglianza non sta nell’aspetto ma nel contenuto, come fare a riconoscersi? A quali impensabili facoltà attingere per oltrepassare il muro, il velo, l’apparenza, i limiti della forma?

Eccolo che rincasa. Potrei fare un tentativo… Leggimi, leggimi, leggimi… Mi passa accanto, avanti e indietro, poi sprofonda nella poltrona qui di fianco, guarda l’orologio, accende una sigaretta… Cosa fa? Cosa pensa?… Leggimi, leggimi, leggimi… (Dilemma: chi dei due vuol esser letto?)… Mi guarda.

Dev’esserci qualcosa nell’aria, nell’aere, nella chimica dei corpi e delle pagine, del sangue e dell’inchiostro, qualcosa che fa da passaggio, da ponte tra certe esistenze, animate o inanimate che siano, ponte sul vuoto, sul nulla che spaura (come biasimare chi non vuol guardare e volge lo sguardo altrove? chi finge di non sapere e rifugge il sospetto?), quel Nulla maiuscolo a cui apparteniamo, quel Tutto di cui siamo parte inessenziale che da lì proviene per ritornarvi immemore, malgrado questa beltà e questo marciume, nonostante la materia verosimilmente certa di cui siamo circondati e fatti, noi senza ragion d’essere, in uno spazio insignificante e tuttavia raro, esseri per così poco di quel tempo da farci meraviglia e sgomento e tenerezza, noi poveri, poveri disgraziati che non siamo altro – cosa ci lega, cosa lega la tua mano alla mia pagina, il tuo sguardo alle mie parole, la tua anima alla mia?

***

(Postilla a fine testo, vergata a mano)
Ho trovato questo libro per caso. Giuro di non averlo mai visto prima. Non ho idea di chi sia l’autore: non v’è traccia di nome, titolo, data di stampa, editore. Niente di niente. Ma qualcuno deve averlo pur scritto.
Certo non può essersi scritto da sé…