Cenerare

In questo momento della mia vita, fumare è quanto di più simile a una relazione.
A ogni boccata, mi sembra di masturbarmi.
Non scavo nelle palle, colmo una fossa affettiva.

Da quando è terminata la mia ultima relazione umana, questa routine è diventata talmente necessaria da aver dimenticato come spendessi le giornate prima che il fumo assumesse i connotati di una dipendenza.
Ho spesso fumato in compagnia, mai per necessità quanto per sentimento dettato dalla situazione.
Fumare è stato un sinonimo di convivio. Stavolta, di sopravvivenza.
Anche F. faceva lo stesso prima di conoscermi e questa eredità me la fa percepire nella voragine che si è scoperchiata sopra i nostri comuni intenti.
Ho iniziato seriamente in SPDC quando l’unico collante sociale era starsene su una panchina a grate, in attesa di visite o di uscire, a riempire bicchieri di carta con cicche che galleggiavano come cadaveri di pesci in un’acqua torbida; morta dentro come tutti.
C’era un tizio che chiamavamo Buddha, si fumava persino le dita per non sentirsi così tanto prigioniero di quel posto. Era un palliativo: il rosario delle sue migliori preghiere gli era stato tolto a inizio ricovero, chissà quanto tempo prima.
Si sentiva ostaggio di Hamas, condannato alla gabbia dalla Meloni per un crimine che era la sua stessa mente. Sbavava i pensieri. Fuori era un barbone.
Io fumavo con D., la mia amica sororale nella devastazione.
Mi passava gli ultimi tiri, come a dire finiscimi tu che sono stanca; lo era sempre.
Camminava con le mani sospese ad altezza seno, un seno narcotizzato da donna attraente in una vita esteriore, i gomiti fissati al suo ultimo momento di serenità, a metà strada tra chi era e chi sarebbe potuta tornare una volta lontana da lì, di nuovo giovane.
A ogni aspirare corrispondeva un lamento per la mia clinicamente testata condizione di depressione maggiore, per la sua micidiale apatia; per uno smarrimento condiviso. Aveva tentato un suicidio; avevo tentato un suicidio. Cosa che adesso in qualche modo prolungo, lentamente, reitero ingozzandomi di nicotina.
Forse pure per lei era un esercizio al trapasso.
Sul retro della copertina del libro che mi porto dietro, Michel Houellebecq tiene tra le dita una sigaretta e mi fa da compagno di affondamento; mi fa da specchio. Relitti di un mondo a scatafascio i cui pezzi sono le nostre frustrazioni, disillusioni dettate dal clima che predomina nel cervello, io e Michel siamo degli animali sfiancati: feriti, ci manca l’aria; fumiamo per averne un’altra. Ma le cicatrici non si rimarginano nella combustione.
Il mio cervello ha il cognome di una regione basca e il nome di una tonalità dell’anima. F. non mi è mai stata così vivida.
Potrei bruciarne il paesaggio, ledermi con la sua araldica, ma non so più come ci si sente peggio.
Se fumo invecchio prima, magari muoio, magari non so più niente. Annebbio ogni versione possibile di noi due in una nuvola. Incenerisco i rimpianti e li lavo via con l’acqua di scarico. E quando spengo mi vedo scomparire, ci vedo nel gorgo.
Un pacchetto di Winston blu mi costa 5€, uno di Marlboro rosse 1,50€ in più, altre marche non ne ho mai provate; degli accendini dimentico sempre il prezzo. Ne ho tanti a casa, ne ho persi molti per strada, anche quello che mi è stato regalato da R., che ho conosciuto su Tinder, vista una volta e mai più: giusto il tempo di barattare la mia assuefazione con il suo scarso interesse per il futuro.
Un pacchetto mi dura anche una settimana; riesco a concentrarmi su altri aspetti del dolore.
Accendo con la destra, copro il braciere con la sinistra, aspiro con tutto me stesso sperando in un cancro non importa se letale, purché non tardivo. Sono stanco come D., ho le mani sospese nel gesto di catramarmi il sangue. Sono vittima dei miei ricordi; vivere di questi è farsi strada nella notte come un vagabondo che vede scorrere tutte le sue lune sopra le vetrine di negozi in cui non potrà mai acquistare più nulla. Vorrebbe solo dormirci dentro, come io in tutto quello che si è spento. A lui lascerei il mio ultimo pacchetto prima di tornare a galla, se capitassero entrambe le occasioni. Quel tizio potrebbe essere Buddha, quelle venti cicche i ceri per il dio che lo ha liberato.
F. mi ha lasciato un ultimo mozzicone in mano che ho paura di gettare, sebbene ogni giorno ripeta quel gesto nei nostri confronti. Riempio il vuoto con la solitudine, combacio l’annullamento con la speranza di risorgere nelle sue pupille. Troppo a lungo non sono stato guardato da una donna e ricominciare da capo è un doloroso martirio che sa di esilio dall’esistenza. E per me esistere significa purtroppo essere altrui.
Fumo all’esterno, spesso esco solo per questo. Un libro, un parco, un pacchetto, basta.
Mancherebbe all’appello la mia stirpe di lacrime ma pure quella l’ho ammazzata e gettata in un cestino. Ho pigiato su ogni goccia la scia di un corpo in putrefazione. F. è l’ultima scintilla.

In questo momento della mia vita sto fumando ripetutamente.