Demolition Job o della sostituzione

1.

Cominciamo a discernere, a porre in evidenza le parti in gioco, con armonia. Ci sarebbe il racconto, un testo letterario, di finzione: Demolition Job. Un autore, la parola e ciò che accade quando questa si esprime adoperando delle precise procedure formali, sistemandosi in un certo modo e funzionando di conseguenza: aderendo a una metodologia creativa, diremo, muovendosi in un paradigma. Emendiamo però una certa idea del funzionare, di cui parleremo poi: un funzionare non delle parole accostate in una maniera per uno specifico effetto (se le metto così e così succede questo): ma un funzionamento come un riorientamento dell’Altro (facendomi abitare così, rinunciando a questo e adoperando il senso comune, incarno un impiego, lo risuono). Manteniamo in questi termini l’idea di sottrazione dell’oggetto alla consueta serie semantica, rivedendola entro un atteggiamento dialogico: di flessibilità rispetto all’Altro e non di irrigidimento, plasticità (duttilità del segno). Lo straniamento qui non è un fenomeno di stile e lo stile non si esprime solo attraverso la forma. Leggiamo un racconto e vediamo cosa fa, come lo fa e non cosa dice. Introduciamo un primo nucleo: la parola non coincide con l’oggetto. La parola, intesa come segno, non rimanda all’oggetto, non vuole essere una sua immagine, ma riprende un discorso, un lembo del mondo: «il contesto autoriale mira a demolire la compattezza e la chiusura del discorso altrui» (Vološinov): non rimanda all’oggetto, ma, scomponendone i contorni, è dal suo discorso abitato e rimandato: il processo si inverte e trasforma le sue possibilità espressive (non è la parola a dare una misura al personaggio, ma il contrario). Chiamiamo questo modo di non-coincidenza stile pittorico e quello di coincidenza stile lineare (Wölfflin).
La parola dell’autore riprende, assumendo lo stile pittorico, un certo impiego della parola, un suo momento di articolazione, una sua storia (del materiale sedimentato): la sua storia è veduta da uno scorcio, da un’angolatura: l’autore se ne appropria, la parola ne incarna i valori. È da ciò che si fa abitare: ed è per questa ragione che opera una rinuncia. Rinunciando alla definizione della parola altrui, alla sua chiusura, linearmente contornata, e alla volontà di coinciderle, l’autore piega la propria capacità contestualizzante a un processo sfibrante, decidendo della propria contaminazione, della propria dialogicità: la sua parola ha un atteggiamento pittorico, non visualizza linee conformi e confinanti, ma interna in sé in maniera disomogenea i colori dell’Altro: non soffocandosi ad essi (facendoli prevalere, insesistendo), ma risuonandoli nel proprio contesto verbale, incorporandoli, tenendoli sulla propria tela, sul proprio volto: imitandoli, resistendo ad essi, parodizzandoli, omettendoli, ecc.
Ora proviamo a individuare nel concreto questi fatti teorici, impersoniamoli in un esempio.
Pensiamo a un testo oltre Demolition Job, tenendo come sfondo il suo atteggiamento: il testo non racconta più i fatti della realtà, abbiamo detto, ma fornisce un ri-orientamento dei suoi discorsi. Questi possono essere di ogni entità: discorso del padre; del lavoro di spazzino; del mare; della sociologia; del filosofo. Poi: del padre preso nella sua paternità, dello spazzino preso nella sua difficoltà a raccogliere mozziconi, del mare preso nella sua estate, della sociologia presa in un suo problema metodologico, del filosofo preso nella sua svolta linguistica.
Attenuiamo e concentriamoci su un punto: sulla parola che si appropria del discorso filosofico, della voce del filosofo.
Pensiamo a un testo oltre Demolition Job: espressamente riferiamoci all’Amante di Wittgenstein (Markson). Cosa accade in questo caso e cosa accade nel caso di Demolition Job: come accade nell’uno, come nell’altro testo.
Il contesto autoriale dell’Amante assume dialogicamente il discorso teorico di Wittgenstein, assurgendolo a metodologia creativa: il suo discorso è in posizione germinativa, il gene wittgensteiniano risuona in ogni parola.
La voce che racconta (quella di Kate) ha (presumibilmente) gli stessi problemi che ha avuto Wittgenstein: raccontare la storia del linguaggio, decidere per esso attraverso la parola, fornirsi di una sua precisa ontologia: questi problemi in un caso hanno dato vita al Tractatus e nell’altro alla storia di Kate: non propriamente alla sua storia, ma a quella del linguaggio che produce vertiginose cadute appena tenta di resistere alla tensione formalizzante interpolata da Kate. Come ciò accade possiamo dirlo: con un esempio, con due passi. Leggendoli risalta all’occhio ciò che si prova ad esprimersi con quelle procedure: Kate non può dire cosa le parole hanno voluto dire in ogni momento della loro storia: quando le ha espresse e quando ci ritorna per verificarne la sostanza (ma cosa volevo dire con/volevano dire queste parole). Questo è un problema del linguaggio e le sue metodologie (da Kate assunte) non lo risolvono, ma lo intensificano, mortificandone la portata.
Il contesto autoriale qui riporta la teoria dell’Altro tematizzandola nelle sue procedure formali, mostrando dei contorni, linearmente: non rinuncia al confinamento, a coincidere con esso: vuole essere la sua messa in opera. (La pittoricità è qui comunque presente, nonostante lo stile lineare intervenga nel concepimento dell’Altro a castrare la sua storia. Il discorso di Wittgenstein è comunque riorientato: la parola qui non dice solo “io so cosa Wittgenstein dice”, e cioè così e così, ma “vediamo cosa accade col suo discorso semmai dicesse qui, in questo contesto”. Non esiste l’uno o l’altro stile, ma l’uno o l’altro riceve un specifico valore, diremo: si manifesta la prevalenza di uno stile nell’insieme dell’opera artistica. Nel caso indicato questo si intenziona in una coincidenza della teoria con la pratica di Kate: quella di Kate è una immagine della teoria – la teoria è sì un mezzo, ma un mezzo per misurare sé stesso, per auto-illuminarsi).
Adesso veniamo a Demolition Job. Ora la questione è più complessa: l’attenzione non è rivolta all’oggetto, ma alla sua apparenza. Siamo fuori dal dominio del sembiante e dentro la parvenza dell’insieme: qui la parola assume il discorso dell’Altro in maniera pittorica, non coincide con esso: la parola ha scoperto che non può coincidergli (è stata sgamata, e straborda fuori di sé, straniandosi). L’incomprensione del processo che adegua l’intera storia è la prima prova di questa rinuncia. La teoria prende il nome proprio di Wittgenstein, la parola lo riporta, ma solo al primo scambio, poi prende le sembianze di un altro, diremo di altri, ma la parola lo nasconde. Non fuoriesce alcuna tematizzazione, il polo creativo costruisce dall’interno della parola dell’Altro la sua storia scompattandone i contorni. Non la conosce e la mostra come ambientazione dei suoi personaggi. I personaggi non hanno un nome, quelli che leggiamo (dell’Esperimento e delle Cavie, che sembrerebbero dei personaggi) sono quasi come degli indici di riferimento: ciò che conferisce a un personaggio il suo significato è il movimento. Questo si congrega nelle idee che sembrano convogliare l’intera storia: gli indici di riferimento sono i significanti che trascinano le significazioni a compimento, ad attuazione. Non sono i personaggi trascinatori di una simbolica posizione teorica o ideologica: ma sono i personaggi dentro la processualità della parola trascinati dalla sua tensione: essa richiama a discorsi consolidati (consueti) che il contesto autoriale resuscita dimenticandosene la forma (scordandoli). Lo straniamento che esprime la realtà ha ingoiato l’Altro, e da qui traspare la sua incarnazione: la sedimentazione della riflessione teorica nella parola riportata risuona nella parola autoriale disciplinando una faglia, un piano su cui s-puntare uno sguardo. Dell’oggetto inteso nel senso comune l’opera ci fornisce un nuovo valore e dello straniamento la sua condizione di pluralità.
Adesso ri-veniamo a Demolition Job, individuando un punto chiave: il discorso dell’amen è forse il primo oggetto della realtà presentato dal testo. Il discorso dell’amen è nella realtà come un oggetto in completa armonia col quotidiano. Appena finisce nel testo, risuonando nel contesto verbale della parola autoriale, prende le sembianze di un segreto. Nel suo discorso se ne articola un altro: quello della sua teoria. Il testo vuole torcere il suo discorso assumendo come strumento la teoria che lo presuppone, ma senza sapere dove inizia la dimensione dell’uno e dove finisce quella dell’altro. La «labilità dei limiti» ci rimanda qui alla pittoricità di uno stile che non irrigidisce il linguaggio, la sua parola, che non lo delinea, ma la dialogizza, facendosi abitare dall’Altro: ri-sentendo, ascoltando. Esso lo abita e si incarna in un contesto verbale che richiama dei suoi particolari aspetti a discapito di altri. Qui l’Altro non è un mezzo per auto-illuminarsi, per misurare sé stesso (come nel caso precedente); esso è allora dalla parola responsabilmente com-preso per produrre uno scarto, s-misurandosi e ri-mandandosi altrove, mostrandosi all’altezza del suo Creatore (muovendo nel dominio dell’io-per-l’altro e non in quello del io-per-me stesso).
(Banalmente l’autore ha come tema una parola che è anche materia della sua storia, ma la questione non è tanto la vertiginosa coimplicazione, quanto la capacità e l’atteggiamento costituente che si rivela nella forma: se la parola dell’autore si fa abitare dal discorso dell’amen e il discorso dell’amen richiama implicitamente il suo universo, la teoria che prova a risolverlo non combacia con esso, ma si confonde con esso, restituendo al lettore il risultato del suo contorcimento).

2.

L’aprosdoketon è una forma retorica, un fatto chiuso. Quando la parola lo opera si serve del suo discorso: l’inatteso; il ribaltamento; il colpo di scena. Questi, scompattandolo, incarnano le ultime disposizioni dell’evento: lo recitano, lo invocano. La spiegazione della forma retorica impiega la parola del senso comune per ritirarsi dall’ombra e s-chiarire il suo colore (per mostrarsi, identificarsi), («chi sono»). Quello che è applicazione – atteggiamento, postura – sembra essere movimento, personificazione. Si legge: «Morì ingozzandosi d’acqua per disperazione come un vegetale inondato da un aprosdoketon meteorologico». Il rituale della regolare forma retorica entra nella storia e si spacca, il suo creatore muore: la storia svolge il suo tema impiccando sé stessa. Svevino morì inondato da un aprosdoketon, che non vuol dire dall’inatteso: la parola incarna la distanza tra i due contesti – quello autoriale e quello altrui – e il coesistere e consistere dei due discorsi è il modo e il motivo (non la ragione) in cui si dà l’assassinio di Svevino. (La parola altrui è l’inatteso; il contesto autoriale non è un altro dall’inatteso, ma è dell’altro per l’inatteso; è un suo nuovo corpo, una sua nuova forma di vita; è l’architettura che ospita la dicitura già enunciatasi nel tempo; è il motivo che lo risuonerà, che lo succederà; solo che il caso vuole qui un risuonare per la storia e non dentro la parola; il discorso dell’inatteso non risuona nel contesto autoriale orientandosi e co-stringendosi nella sua forza, ad es. rappresentando una delle sue storiche configurazioni, no. Il suo risuonare è qui materia della storia, è ciò che servirà per procedere e concludere le sorti di Svevino. Qui si vorrebbe dire: è perché risuona che c’è storia, i fondamenti procedurali si confondono con la storia).
Svevino tratta in prima battuta della forma retorica («Svevino mi insegnò qualcosa…» – questo qualcosa cos’è? Non è la forma retorica, ma la sua importanza, il suo pendolarsi, procurarsi una radice, dei fatti. Svevino sottrae l’oggetto dall’incanto della teoria critica, dalle procedure semplici, dalle forme del possibile e lo porge all’autore, sotto la sua attenzione). Venuta fuori la forma retorica, è la parola autoriale ad appropriarsene («l’altro colpo di scena riguardò un peculiare aprosdoketon»). Poi questo scarto (il suo mostrarsi, del peculiare…) opera un movimento laterale e si confonde con Svevino: lo sostituisce, lo incarna. La rivelazione della forma retorica ha come sua materiale rivelativo la fine di Svevino: Svevino può essere dentro quella forma fino a quando questa avanza implicitamente; appena questa si scopre – si accorge di – trascinare il cadavere di Svevino, di-mostra la fine di quest’ultimo come sua realizzazione.
Nel primo momento la parola usa la forma retorica concentrando la tensione sull’importanza biologica di questa: è Svevino a resuscitarne le sembianze («oh, osserva con attenzione come muoio»). Poi la parola concentra la tensione sulla peculiarità di ciò che seguirà («che succede se risuona così?»). La messa in opera per cui si riuscirà a sottrarre l’oggetto dalla serie irrigidita è il tessuto magico della trama («così ne fornisco uno speciale modello»). Appena un momento dopo l’operazione magica sposta l’oggetto nella storia e si sostituisce ad esso: e la sottrazione (assumendo una funzione non procedurale, ma effettiva e vitale nella storia) si manifesta sottraendo lo stesso Svevino alla storia delle Cavie.
Ciò che accade è che la procedura entra nella storia e la storia entra nella procedura. No, ciò che accade è che la procedura entra nella storia mentre la storia è la sua procedura – ancora una volta qui non si pone l’attenzione sulla vertiginosa coimplicazione (essendo essa una coimplicazione che soffre dell’eternità, del paradosso, non del ricamarsi combinato), ma sulla capacità magica della sostituzione come luogo (e non come mezzo) attraverso il quale si mostra il gioco delle due parti: la storia è nelle procedure nel senso che ne è libera, nel senso che l’effetto del confondersi delle parti è prevalente e destinato a ripercorrere i fondamenti delle sue articolazioni.
La parola di Demolition Job è una parola che corre il rischio di accadere e mai di compiersi. Il disegno artistico punta a un ri-orientamento frammentato di essa, verso una sua responsabile rivelazione.


Kairos ha dialogato in diretta Facebook con l’autore, Alfredo Zucchi, su Demolition Job e sulla forma romanzo. La registrazione completa dell’intervento è disponibile qui.