La tragedia delle innocenti di ogni tempo: le Troiane

In scena al teatro Elicantropo il capolavoro di Euripide, atto d’accusa disperato contro la violenza disumana della Storia.

Nel ventre di Napoli c’è un antro di bellezza e di resistenza, dove da oltre venticinque anni si scrive, si rappresenta, si insegna il teatro ai massimi livelli, tra l’origine arcaica e i bordi estremi della contemporaneità. Questo luogo sospeso nel tempo e radicato nel presente è il teatro Elicantropo.
Carlo Cerciello, autore, attore e regista, è l’animus dell’Elicantropo, che ha fondato nel 1996 e che dirige da oltre venti anni, insieme a Imma Villa (l’anima), attrice iconica e superlativa per pathos e sapienza recitativa.
L’Elicantropo esplora i territori dell’arte drammaturgica contemporanea, rappresentando autori e opere che scandagliano le tragiche e oscure dinamiche del tempo presente. Solo per citare alcuni degli autori messi in scena si pensi a Saramago (di cui Carlo, primo al mondo, ha adattato per la scena Cecità, ricevendo anche la presenza entusiasta del premio Nobel in sala), a Brecht, Schnitzler, Weiss, Bernhard ma anche agli italiani Pasolini, Testori, Santanelli e Moscato, con cui vi è stato un sodalizio intenso fino alla recentissima scomparsa del maestro. L’idea di teatro che innerva la dimensione dell’Elicantropo affonda nelle origini: il teatro inteso come racconto dell’umanità, dei suoi drammi e delle sue abissali cadute, dentro a un orizzonte storico ed esistenziale in cui l’elemento politico, comunitario, culturale è sempre decisivo. La metafisica dell’uomo è sempre intrecciata alla Storia, la quale determina i destini e produce orrori e lotte, in una dialettica drammatica tra il potere e gli innocenti. Anche quando vengono rappresentati i classici lo sguardo sull’attualità della storia ne guida la lettura, sia per l’universalità del messaggio dei maestri sia per una precisa scelta di posizionamento. All’Elicantropo, il teatro non è solo rappresentazione ma azione. La cultura teatrale qui tenta di incidere sulla “polis”, di testimoniare, di opporsi, di rispondere. Cosa è d’altronde il teatro se non atto politico, messaggio e ammonimento alla comunità?
La nuova stagione teatrale, 2023-24, si è aperta con Le Troiane di Euripide (con innesti di Seneca e Sartre, che la sapiente riscrittura di Carlo Cerciello ha amalgamato magistralmente), in scena dall’11 gennaio al 4 febbraio.
Prima di accedere al palcoscenico, lo spettatore è accolto da un video sugli orrori della guerra in atto di Israele contro la Palestina: immagini agghiaccianti di devastazione e morte sulle vittime innocenti della Striscia di Gaza arrivano come pugni nell’esofago sulle note di un rap napoletano. Poi si entra nella pancia dell’antro. Due strette gradinate laterali attendono quaranta corpi aderenti. Le attrici davanti, addosso, senza barriere, senza distanza, dentro all’utero buio insieme agli spettatori.
Buio. Musica dall’altrove. Cecità e sensi smarriti. Solo un corpo stravaccato su un tavolo tondo, sotto a un ombrellone, appare nella luce. Si desta, si alza, la lattina di Coca Cola abbandonata vuota sul tavolo, e canta. “Happy birthday mister President”. È Marylin. Cotonata e colorata, anni 50, Marylin Monroe intona con la sua vocina suadente l’iconico buon compleanno a Kennedy. Dal buio, intanto, ai piedi del palco balneare di Marylin, emergono tre ombre nere, tre donne marmoree avvolte in sudari neri, mute, immobili, perturbanti: le Troiane.
Al centro Ecuba (Imma Villa), ai lati Andromaca (Serena Mazzei) e Cassandra (Mariachiara Falcone), in alto Elena (Cecilia Lupoli). Quattro donne che portano sulle loro vite il peso nefasto della Storia, travolte, insieme alla città di Troia, dall’ingiustizia e dalla violenza delle vicende umane governate dalla barbarie dei vincitori. Dopo la performance canora, disorientante, di Elena-Marylin la prima a prendere la parola è Andromaca che tiene tra le braccia una kefiah, simbolo del figlio Astianatte che le hanno strappato e simbolo della tragedia di tutti i bambini innocenti del mondo. È rabbiosa Andromaca, con i Greci vincitori a cui è stata, come le altre, assegnata in schiava, con Elena causa della guerra e con Ecuba, che non ha soppresso Paride infante come gli dèi avevano vaticinato. È moglie vedova, del valoroso Ettore, donna sola, madre disperata, schiava del figlio del massacratore di suo marito. Ecuba piange i cinquanta figli morti, il vecchio marito re decapitato, la città sepolta nel nulla, i fasti di regina, le contorsioni atroci del Fato, la volontà imperscrutabile e feroce degli dèi, l’oltraggio furibondo dei Greci vincitori ad ogni pietà umana. Eppure, incarna la maestà della figura attraverso la sobrietà del linguaggio, grazie al tentativo estremo di sostenere le altre nel dolore irreparabile. Cassandra, invasata, vaticina, ancora inascoltata, la fine tremenda che attende coloro che credono di aver vinto, che periranno nel sangue, stroncati dai loro stessi affetti, come se l’unico vincitore definitivo e assoluto fosse sempre la morte. Elena, ripudiata dalle troiane che la incolpano della loro catastrofe, che mai l’hanno accettata, e dai Greci che le addebitano i lutti in terra asiatica e si preparano a lapidarla in patria, reclama la propria innocenza, essendo ella stessa vittima di un sortilegio divino a cui non poteva opporsi. Anzi i Greci dovrebbero onorarla poiché solo grazie a lei hanno vinto e depredato la magnifica città di Troia. Elena, vittima della sua bellezza, addirittura sostiene che lei non ha mai abbandonato Sparta e il talamo coniugale poiché al suo posto Giunone avrebbe mandato a Troia un fantasma, niente altro che una proiezione ectoplasmatica. La guerra, dunque, sarebbe stata compiuta in nome di un’ombra, di un pretesto, di una causa fumosa dimenticata per la brama di conquista e di annientamento.
Fuori campo una voce metallica in ebraico intima alle Troiane di imbarcarsi verso la schiavitù greca, annuncia la defenestrazione e lo schianto del piccolo Astianatte per mano di Ulisse, minaccia, impietosa e asettica, le quattro donne inermi. Nell’allestimento di Cerciello difatti la madre di tutte le guerre, che nulla aveva avuto di epico, non è altro che l’orrore senza tempo che continua a ripetersi, oggi in Palestina, dove la protervia dei più forti schiaccia sotto agli scarponi insanguinati l’umanità dei più deboli. Allora come oggi, vi sono i carnefici, tronfi della propria forza e accecati dalla furia conquistatrice e le vittime, nude, indifese, maciullate, nei corpi e nella dignità. La tragedia si chiude con una bandiera palestinese abbandonata dalle troiane al centro della scena.
Imma Villa è monumentale, recita anche nel silenzio e con i silenzi, occupa la scena con i movimenti del volto, controlla il corpo e la voce in modo magistrale, senza una stilla di enfasi, muovendo alla commozione chi la osserva e la ascolta. Serena Mazzei interpreta una Andromaca struggente e vibrante, dando voce alla rabbiosa disperazione di una donna a cui è stato sottratto tutto senza pietà. Mariachiara Falcone è una straordinaria Cassandra, che fiammeggia negli occhi spiritati l’ansia di giustizia e sconta il peso di dire la verità senza esser creduta, donna destinale e profetica condannata alla sua irredimibile solitudine. Cecilia Lupoli incarna con bravura sconcertante l’inconsapevolezza e, a tratti, la frivolezza di una Elena a sua volta vittima più che artefice. Una Elena che Carlo ha voluto leggere qui come un simbolo della indifferenza e della turpe superficialità dell’Occidente (soprattutto americano) verso gli olocausti della contemporaneità.
È una tragedia di donne interpretata da donne, è la tragedia della vita travolta dalla morte, del lutto di chi non ha colpe e subisce la violenza cieca della barbarie degli oppressori. È il passato che intona il suo monito drammatico restando inascoltato da un presente disumano.
I costumi bellissimi sono a cura di Antonella Mancuso e le musiche struggenti di Paolo Coletta. Foto di Anna Camerlingo.
Lo spettacolo è dedicato al popolo palestinese.