I film di A24 stanno rivoluzionando il cinema americano?
A24 è il nome dell’autostrada che collega Roma all’Abruzzo, ma è anche il nome della casa di produzione indipendente che sta lanciando i futuri autori e registi del cinema americano. Nasce da un’idea di Daniel Katz proprio durante un viaggio fra gli Appennini italiani. Siamo nel 2012. Cinque anni dopo il primo film interamente prodotto da A24, Moonlight (Barry Jenkins, 2016), vince a sorpresa l’Oscar per il Miglior Film. Il curioso caso del piccolo produttore newyorkese inizia a incuriosire gli Stati Uniti e catalizza l’attenzione della stampa di settore. C’è già chi organizza il funerale alle major e scomoda il fantasma della Miramax degli anni ’90, ma A24 è sostanzialmente altro. Si tratta di un rarissimo connubio (almeno ad alti livelli) fra lungimiranza artistica, coraggio imprenditoriale, cultura hipster e intellettualismo upper-class. Se i Weinstein producevano film indipendenti unici nel proprio genere, A24 è – nel tempo – diventato anche uno stile.
Ecco perché uno spettatore che non bada ai titoli di testa, troverà lo stesso retrogusto ipnotico e vagamente disturbante da Uncut Gems (Safdie Brothers, 2019) a Hereditary (Ari Aster, 2018), passando per Ex Machina (Alex Garland, 2014).
I film A24 sono infatti accomunati da una fortissima visione autoriale, da un comune consenso nel decomporre vecchi generi cinematografici, dal rigetto della narrazione tradizionale e da uno stile fortemente aesthetic (Glowwave, Vaporwave, B&W, e qualsiasi altra cosa che faccia trend).
Un po’ come quando i registi della New Hollywood iniziarono ad entrare nelle case degli emarginati con la camera a spalla, gli autori A24 hanno iniziato a raccontare – spesso in maniera surreale e metafisica – disagi, paranoie e sottoboschi vari della società post-ideologica contemporanea. Esattamente come in The Lobster (Yorgos Lanthimos, 2015) in cui i single hanno 45 giorni di tempo per trovare un partner prima di essere trasformati in un animale; The VVitch (Robert Eggers, 2015) in cui si racconta una storia “filologica” di stregoneria con un forte occhio alla disparità di genere; First Reformed (Paul Schrader, 2017) in cui si parla di ambientalismo e fede; e infine The Farewell (Lulu Wang, 2019), storia di famiglie lontane e radici culturali represse.
La forza di tutte queste produzioni sta nel trattare – con un linguaggio assolutamente colto e innovativo – temi complessi spesso abusati dalla filmografia mainstream. È un tipo di cinema post-post-moderno. Nel nuovo indie americano non regge più neanche la categoria di anti-eroe e la retorica sulle periferie esistenziali: i film A24 sono spesso un fiume in piena da cui ognuno può prendere cosa desidera. Il tutto in una confezione regalo scintillante con i fiocchetti colorati.
Ma come far accettare al diffidente pubblico americano tale rivoluzione stilistica e – in parte – contenutistica? A24, dal punto di vista produttivo, è riuscita a ottenere un gran numero di successi a fronte di una filmografia esigua per differenti ragioni. Nel catalogo convivono, da una parte, i prodotti di talentuosi registi esordienti, che possono accedere a un budget relativamente alto e avere ampia libertà artistica; dall’altra parte ci sono grandi nomi del cinema mondiale, che possono realizzare il film rifiutato dalle major o concedersi un divertissement artistico. Nella prima categoria rientrano a pieno titolo Ari Aster e Robert Eggers – geni dell’horror contemporaneo -, Greta Gerwig, i Safdie, Sean Baker; dall’altro i grandi: Paul Schrader, Denis Villeneuve, Gus van Sant, Yorgos Lanthimos. All’altissimo valore cinematografico di tali produzioni si aggiunge anche una campagna di marketing intelligente e oculata: non uno spazio pubblicitario a Time Square, ma un profilo Tinder intestato a un personaggio del film da promuovere; non spaventosi effetti speciali, ma un uomo con un lenzuolo bianco in testa. Il marketing e la distribuzione, però, sono forza e limite di A24: la casa di produzione sembra avere un relativo interesse verso un mercato e un immaginario puramente domestico. Tranne in alcuni casi, molti film A24 non sono mai stati distribuiti in Italia o – in alternativa – hanno beneficiato di uno sporadico passaggio ai festival. La New-New Hollywood, che ancora una volta ha sede a New York, non ha più l’occhio rivolto al vecchio Continente, se non per ragioni puramente artistiche e spirituali. Se da un lato è vero che le quote di distribuzione sono saldamente in mano alle major, dall’altro è certo che A24 ha interesse a rivolgersi a una selezionatissima cerchia di spettatori. Croce e delizia dell’avanguardia. Nella spasmodica attesa di accedere alla visione di Dio sulla Roma-L’Aquila, come Corrado Guzzanti insegna, rimane ferma una certezza. Se tra vent’anni non si parlerà più di A24, saremo ancora in fila al cinema per vedere il nuovo film di David Lowery o di Ari Aster. Un successo che quasi nessuno può attualmente rivendicare.