il viaggio impossibile

Il viaggio impossibile: da Alice nelle città a Paris, Texas

E per la prima volta desiderò di essere via, lontano, disperso in una remota regione dove nessuno l’avesse mai conosciuto. In un luogo senza lingua, né strade. 

Per capire cosa sia il cinema di Wim Wenders, dobbiamo entrare nei panni (o quello che ne resta) di Henry Dean Stanton, il personaggio senza nome e senza memoria che cammina assetato nel deserto del Texas. Travis, scopriremo poi essere il nome del vagabondo, è un uomo che ha famiglia, un figlio e un curioso appezzamento di terra comprato “per corrispondenza” a Paris, Texas.
Durante il campo lunghissimo che apre il film si fissa un concetto molto importante che già accompagna i lavori di Wenders dagli esordi: il tempo diegetico è il tempo della realtà. Non si tratta, però, della vecchia ossessione verista. Non c’è, infatti, il desiderio di mostrare i fatti dal vero, esattamente come accadono, ma la voglia di spezzettare irrealmente la vita fino a raggiungere una semplice istantanea. È una finzione manifesta che funziona: lo spettatore smette di pensare alla parabola del personaggio per fermarlo nel suo Dasein. Nel mondo del presente esiste, naturalmente, anche il mondo del passato, ma raccontato come qualcosa di vivo solo nel ricordo: un’immagine scottante che vola via non appena gli occhi smettono di fissare il vuoto. I dieci minuti del peep show, in cui Travis racconta anni di sofferenza alla sua donna dietro un freddo vetro, sono ormai storia. 
Accettare di accompagnare i personaggi per un breve, brevissimo, periodo della loro vita è il presupposto per viaggiare con il regista di Düsseldorf. Si tratta di un impegno assurdo, quello sottoscritto dallo spettatore, che sovverte ogni canone del road movie. Il viaggio, dunque, non porta a nient’altro che alla conclusione dell’istantanea e all’accenno di una nuova storia interdetta allo spettatore. 
La pretesa di Wenders è però legittima: in un mondo frenetico popolato da umani alienati, come può lo spettatore pretendere l’evoluzione puramente farsesca dei personaggi? Come si può cambiare il corso di un’esistenza seguendo i canoni del viaggio dell’eroe? Come possono i mali dell’animo essere superati da un incontro fortuito, da un luogo ispiratore o dal momento propizio?
Se da un capo c’è Paris, Texas (1984), dall’altro c’è Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974). Il pretesto – in sé molto debole – della ricerca di una madre perduta, è un ottimo spunto per analizzare un viaggio senza inizio e senza fine tra deserti urbani e deserti propriamente detti. Philip Winter, ritrovatosi da solo con una bambina, avrà l’arduo compito di riaccompagnarla a casa seguendo una vecchia polaroid e ricordi confusi. Il protagonista-reporter incaricato di rincorrere paesaggi e catturarli in immagine è paradossalmente catturato dall’immagine di un luogo da ricercare. Nient’altro che l’impotenza dell’uomo deciso a raccontare il divenire tramite uno scatto. È sicuramente un monito allo spettatore che, solo alla fine del film, capirà come il viaggio tra due punti sia solo un’infinità di hic et nunc, ognuno di esso unico, irripetibile e sfuggente. 
Il viaggio impossibile diventa finalmente teoria con Falso Movimento (Falsche Bewegung, 1975) grazie alla penna di Peter Handke, il quale scrive la sceneggiatura del film adattando un romanzo goethiano. La pellicola, ingiustamente accusata di eccessiva verbosità e finita nel dimenticatoio, cerca di fissare attraverso le parole (e non solo attraverso le immagini) l’idea di un’esistenza comune frammentata che non smette mai di morire e rinascere. Esattamente come i due treni della sequenza iniziale in cui i protagonisti – destinati a incontrarsi e perdersi –  viaggiano separatamente. Se, però, c’è una perfetta rappresentazione del fine-viaggio wendersiano è proprio ne L’amico americano (Der Amerikanische Freund, 1977). Riacquisita la serenità dopo la conclusione di un’esperienza noir a dir poco kafkiana, il protagonista (un eccellente Bruno Ganz) è stroncato alla guida dalla malattia contro la quale combatteva. Il personaggio esce teatralmente di scena con un volo giù dall’autostrada. In maniera tragica, ma sempre con il sorriso. D’altronde la fine di ogni episodio della nostra vita non è altro che la libertà, Wenders ci insegna.