La bambola senza volto
La faccia nei giorni di cielo
e il cielo nei giorni senza faccia.
I
Si siede sopra il tavolo, gira lievemente il busto, ancora ansimante per l’amplesso appena finito. Legge le righe d’amore scritte sul foglio, rotondo come il sole, che le copre il volto.
Il cielo della campagna entra dalla finestra.
Ferma così, ferma… Rimani per favore, le dice, iniziando a eternizzarla sulla tela.
Cosa rimane di un amore clandestino se togli il volto alla donna che ami?
II
Nunzieddu si trova a ridosso della porta del cielo in attesa di entrarvi.
Ha avuto un blocco intestinale e i medici hanno dispensato i familiari da ogni forma di cura: non c’è più niente che possano fare. Il dolore lo stordisce, fino a farlo cadere in deliquio, e strugge di pianto i parenti.
Il prete viene da un paese vicino ed è un suo amico d’infanzia. La famiglia ci tiene affinché sia lui a somministrare il sacramento dell’estrema unzione.
Si accosta al suo capezzale e gli chiede qualcosa. Nunzieddu prende a parlare con voce appena percettibile.
Chissà se gli confesserà il segreto del dipinto, si chiedono silenziosamente i curiosi stipati davanti alla camera del morente. Pagherebbero per essere al posto di quel prete.
Solo la distruzione dell’oggetto che perpetra lo scandalo e la trasgressione, ammesso che di scandalo e trasgressione si possa parlare, potrebbe saldare definitivamente l’imprudenza commessa.
Ma uno che è riuscito a farsi chiamare col vezzeggiativo – Nunzieddu, per via del suo carattere bonario – cosa può nascondere di così torbido e indicibile?
Questo perdono però è diverso dagli altri perdoni perché, non può essere più una semplice sospensione del giudizio, è l’ultimo perdono.
Le parole cominciano a uscire, quasi strozzate, di bocca. Il ministro di Dio fa il segno della croce, unge la fronte con l’olio consacrato e gli ripone le mani sul petto: l’anima si è separata dal corpo e ha cominciato la sua trasmigrazione.
****
La signora Illuminata prese qualche spicchio d’aglio e lo mise a soffriggere in un capiente tegame. Nella pentola accanto, “‘u bastarduni” cuoceva a fuoco lento.
Quel giorno avrebbe preparato la “pasta alla milanese”: una pasta che del richiamo nordico aveva solo il nome visto che quel piatto era fatto solo ed esclusivamente con i sapori della Trinacria. Forse era un modo che avevano i siciliani di sentirsi meno provinciali, pur continuando a utilizzare i prodotti della propria terra.
Seguiva, in maniera pedissequa, una tabella di marcia e niente doveva andare fuori dal programma; la sua maniacale disciplina strideva con la creatività, ma risultava funzionale: con le pance piene si ragiona meglio e si è più propensi all’accondiscendenza.
Nunzieddu entrò in cucina. Aveva il solito viso fatto con quel sorriso perenne che irritava la moglie.
– Che fai qua? – gli disse la signora Illuminata.
– Ti do una mano.
– Non ho bisogno del tuo aiuto, me la so cavare da sola!
La sua intransigenza era una condizione essenziale: serviva a tutelare la famiglia anche dai pericoli che si annidavano dentro la genetica. Diceva sempre che si era fatta da sola, e di questo ne andava fiera. La sua trasformazione era avvenuta attraverso un percorso duro, fatto di insidie e non era un’imbecille come quelli che sciorinavamo traguardi senza percorsi.
Del resto quale sembianze poteva assumere una trasformazione senza percorso? Quella iniziale sovrapposta a se stessa: un’immutabilità.
Ogni cosa doveva stare al proprio posto secondo un ordine prestabilito, e per fare questo occorreva una certa dose di disciplina. La disciplina è la madre di tutte le competenze.
Disciplina e competenze. Competenze e disciplina.
– Apparecchio la tavola – riprese il marito.
Nella forma c’è la sostanza, gli diceva spesso la moglie. Lui però se ne fregava della forma, e se avesse potuto sarebbe stato solo sostanza.
La signora Illuminata aveva fortemente desiderato un nipote maschio che portasse il cognome del marito, cognome che però non si era potuto perpetuare perché aveva partorito due figlie femmine. Col tempo aveva imparato ad amare i suoi quattro nipoti.
– Te l’ho detto tante volte… Quando vengono le tue figlie devi farti trovare sistemato.
– La tovaglia… Non la trovo.
– Non trovi mai niente… Se non ci fossi io in questa casa… – disse la signora Illuminata mentre schiacciava, con la forchetta, gli spicchi d’aglio da soffriggere – La barba… Ogni due giorni lo sai che ti devi fare la barba.
– Perché cambi sempre posto alle cose? – disse Nunzieddu tirando fuori la tovaglia da un cassetto.
– Ah, non dimenticare di farti anche la doccia.
Gli odori di soffritto continuavano a diffondersi nella cucina. L’accondiscendenza di Nunzieddu poteva trasmutare l’essenza della sua stessa anima?
– Il centrotavola con le arance… Lo rimetto sulla tavola apparecchiata?
– Sento tanfo di piscio.
– Ieri sera… Mi sono lavato.
– Qua non sei da solo nel tuo seminterrato.
Assecondava di buzzo buono le parole della moglie lasciandole credere che potessero servire a renderlo una persona migliore, come il fuoco lento dei fornelli che trasformava alimenti non commestibili in cibi succulenti.
La signora Illuminata spense il fornello: “‘u bastarduni” sfumato col vino bianco era già affogato. Il cavolfiore era pronto per essere servito.
****
Il soggiorno è stato tirato a lucido. La stanza spoglia, con le pareti bordate di sedie, accoglie al centro la bara, adagiata sopra un catafalco puntellato da cavalletti, ammantata con un drappo funebre.
Nunzieddu è vestito di tutto punto con la carne già in trazione, disteso dentro un tabbutu più lungo di lui, con uno spazio vuoto oltre le suole delle scarpe che accoglie il chiacchiericcio dei presenti.
È un’intercapedine necessaria per consentire all’anima di poter sgusciare fuori dalle colpe?
La signora Illuminata sembra un traliccio che è stato appena divelto da una terribile forza d’urto.
– Cu ti teni accura, ora? – gli sussurra sfiorandogli la fronte fredda.
Vorrebbe continuare ad accarezzare con lo sguardo, acquattata dietro un cespuglio, quel corpo in trasformazione. Invece è costretta a mostrare ai parenti, pur senza lacrime, la sua pena.
Molti conoscenti, dopo aver dato l’estremo saluto, escono e soggiornano davanti l’ingresso della casa, in modo tale da poter sfamare la curiosità, curiosità che poi servirà ad alimentare il curtigghiu in piazza.
– Ma il dipinto della donna nuda ancora non l’hanno messo dentro la bara? – dice un signore sopra il marciapiede.
– Può essere che ce lo mettono domani, prima di chiuderlo – risponde un altro.
– Siete scimuniti tutt’e due – dice con fare spavaldo un terzo signore – è sicuro che non ce lo metteranno. Come ci entra?
– A meno che prendano solo la tela e l’arrotolino – riprende il secondo signore.
La notte lascia il posto ai raggi del sole che inondano di luce le facce informi dei presenti. Una mosca irrompe con un moto agile e febbrile, esegue delle volute e si posa sulla fronte fredda del defunto. Qualcuno dice di aprire la finestra perché si tratta di una mosca cavallina. Una delle figlie allontana l’insetto con la mano.
La signora Illuminata rimane impassibile, e pensa al suo vero volto: quello della mosca cocchiera.
Il vuoto dentro la bara, a ridosso dei piedi di Nunzieddu, sembra espandersi fino ad abbracciare tutto lo spazio della stanza. L’atmosfera diventa austera, e tutti vengono inghiottiti da una sorta di rispetto reverenziale che ammutolisce le malelingue aggrovigliate attorno al dipinto della donna nuda, troppo vera per essere immaginata.
La luce delle candele spacca la bara, e riverbera una riga di pulviscolo che si staglia ad angolo tra la parete e il pavimento.
L’addetto delle onoranze funebri, con la faccia liscia di ghiaccio, invita i presenti a uscire: il tempo della camera ardente è finito. La nipotina entra, nel momento in cui due uomini prendono il coperchio, con passi furtivi, per dare l’ultimo saluto al nonno. I due uomini rizzano lo sguardo e protendono le facce raggelate, mentre Lia sistema accanto ai piedi di Nunzieddu, dentro il vuoto del chiacchiericcio diventato ormai silenzioso, una ciocca sciolta dei suoi capelli amaranto.
****
Nunzieddu si alzò e si avvicinò a un piccolo tavolo dove Lia armeggiava con dei colori a tempera.
– Prima sciogli il colore e poi cominci dal contorno.
– Nonno, mi vuoi bene?
– Le pennellate devono essere morbide e decise.
– Allora?
– Intingi di nuovo il pennello, e riprendi da dove ti sei fermata, le pennellate devono essere continue come i tuoi capelli.
– Nonno, ti avevo fatto una domanda?
– Quale domanda mi avevi fatto?
– Ti avevo chiesto se mi vuoi bene?
– Tanto, tanto.
– Anche più della nonna? – disse con gli occhi sgranati e i capelli che si sporcavano di colore.
– Sì, anche più della nonna – rispose guidando le pennellate sopra la curvatura del sole disegnato a matita.
– E perché?
– Perché la nonna non ha i capelli amaranto – le disse, sottovoce, avvicinandosi al suo orecchio.
Quella bambina poteva diventare la reincarnazione di sua sorella, doveva stare attenta, pensò la signora Illuminata mentre si avvicinava al piccolo tavolo.
In famiglia nessuno lo diceva apertamente, ma Lia, oltre ad avere lo stesso nome della zia, ne era anche una stampa spiccicata, aveva lo stesso colore dei capelli, lo stesso incarnato chiaro della pelle, e perfino le stesse movenze, movenze che non aveva potuto imitare.
– Ti sei sporcata i capelli.
– Ho colorato il sole.
– Andiamo a lavarli.
– Devo completare l’ultimo raggio di luce.
Dietro il ruolo del capitano, che individuava la giusta rotta per famiglia, c’era una donna fragile che si era accontentata di condividere il marito con un’altra.
Prese il braccio della nipotina e la trascinò con sé verso il bagno.
– I miei capelli sono come quelli che aveva la zia – precisò la nipotina mentre la nonna aveva incominciato a insaponarli.
– Sono tutti impiastricciati: appena arriva l’estate li tagliamo.
La vista di quei capelli amaranto la metteva in agitazione.
– Li voglio lunghi e sciolti come quelli che aveva la zia.
– Cosa ne sai di come ce li aveva la zia? Quando è morta, ancora non c’eri!
La signora Illuminata era una donna buia; era rimasta tale anche dopo la perdita prematura della sorella. “Della morta se ne parla tre giorni, poi la vita continua”, aveva detto una volta, lasciando tutti a bocca aperta, dentro il panificio.
– Li ho visti nella foto che la mamma tiene in camera sua.
– Non sarai come lei! – disse pettinandole i capelli senza guardarli.
Quei fili amaranto erano il sangue mestruale che da lì a poco le avrebbe invaso il corpo, erano l’impurezza di una libido che l’avrebbe afferrata senza darle scampo e dalla quale doveva salvarla.
– Non voglio tagliarli, nonna.
****
I partecipanti salgono i gradini che conducono alla casa di Dio. Oltrepassano la porta della salvezza, e, dopo aver fatto il segno della croce, s’infilano – tramite una porta accanto all’acquasantiera – dentro una stanza dove c’è un tavolinetto e una sedia. La signora della chiesa prende le offerte, e scrive i loro nomi su delle cartelle che poi restituirà alla famiglia del defunto: serviranno a contabilizzare i presenti e a conteggiare gli assenti.
Il prete, l’amico fraterno di Nunzieddu, comincia a celebrare l’omelia. Tutti, lo guardano di sottecchi, credono che la confessione del morente l’abbia reso custode del segreto sul dipinto della donna nuda.
La sua voce piena sembra sgrovigliarsi dalle capriate di legno e diventare verbo trascendentale.
Gli astanti vengono presi da un tremito; rimangono a fissare la bocca del prete sconosciuto in attesa di essere salvati.
Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.
Il prete alza l’Eucarestia: sembra un sole lontano, immerso nella luce smorta, che occhieggia con le facce impallidite dei presenti inginocchiati.
Fuori il tempo borbotta attraverso con l’eco di tuoni freddi che vengono da lontano.
Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.
La luce di un lampo guizza dentro la chiesa, e rischiara le mascelle del prete che pare l’unico a non temere il giorno del giudizio.
Il cielo diventa sempre più pallido, e l’ululato trasparente del vento sembra prendersi gioco degli astanti rimasti impietriti.
Mistero della fede.
Il silenzio prende il sopravvento. Il prete fa cenno con la testa e i quattro nipoti si avvicinano. Il più grande poggia un foglio sopra il leggìo e comincia a leggere.
Per sempre.
Don Nunzieddu per gli amici
nonno caro e bello
per noi nipoti.
Sei stato perno
per tutti coloro
che ti hanno interpellato;
il bene che hai elargito qui
adesso siamo sicuri
che lo esternerai là
nel posto che ti spetta,
insieme agli angeli
… Sarà una festa continua.
Siamo convinti
che non ti scorderai
di noi e di coloro
che ti hanno respirato.
Il tuo saluto non è un addio,
no, siamo certi
che veglierai su di noi,
come sai fare tu
con la tua discrezione.
****
Nunzieddu di mattina lavorava al Genio Civile e nel pomeriggio si rifugiava nel suo seminterrato, o, come gli piaceva chiamarlo, atelier, che si apriva nell’altro lato della casa sopra la silenziosa campagna digradante fino al vallone. Là sotto dipingeva anche ciò che non si poteva dire con le parole.
Era convinto che le curvature della donna incarnassero qualcosa di celestiale: per questo le aveva raffigurate sotto diverse prospettive.
Il giorno del suo calvario cominciò quando decise di partecipare a una mostra di pittura. Del suo quadro ne parlarono tutti i giornali locali; ci fu perfino un’emittente televisiva che mandò in onda una sua intervista. Arrivò anche la telefonata da parte di una prestigiosa associazione che gli avanzò, dietro una lauta ricompensa in denaro, una proposta di acquisto della sua opera.
Nunzieddu tenne con sé il dipinto, e si rintanò nel seminterrato per sfuggire al feroce fermento delle malelingue: “Come si può aver ritratto una donna così senza averle fatto niente?” “Il signore dà il pane a chi non ha i denti per mangiarselo”.
Qualcuno, addirittura, affermò di aver visto più volte, a ridosso del ciglio del vallone, tra i canneti e i calipsi, il profilo di una donna con i capelli sciolti annaspare tra la folta vegetazione.
Qualcun altro era pronto a giurare che la donna in questione fosse proprio la stessa del dipinto.
Le vociate del mercato aiutavano la signora Illuminata a mimetizzarsi tra la folla in modo da diventare invisibile, e potere scarminiare tra gli oggetti delle bancherelle, a patto di non trovare mai quello che nemmeno lei sapeva di cercare. Quel giorno, al mercato, sentì addosso, come se fossero intenti a scrutarle l’anima, tutti gli sguardi del mondo.
Rientrò subito a casa e, col volto infiammato che sembrava scollarsi dal resto del corpo, si diresse nel seminterrato. Aprì la porta cigolante e la richiuse lasciandosela alle spalle. Rimase immobile, per qualche minuto, con l’anca che pressava sopra la maniglia. Guardò la ragnatela a forma di spirale, sfuggente a un occhio non attento, tessuta nella penombra tra lo spigolo del muro e la sporgenza del pilastro.
– Non posso uscire più! Tutti mi guardano in modo strano – disse fissandolo con gli occhi che erano diventati due lame.
Nuinzieddu, era seduto sull’orlo di una cassapanca un po’ sbrecciata ai lati, raschiava con la carta vetrata l’imprimitura applicata qualche giorno prima sopra il supporto realizzato con la tela di lino.
– Quel maledettissimo dipinto mi sta rovinando l’esistenza – riprese la signora Illuminata.
– Una buona imprimitura serve a trattenere i segreti del pennello – disse mentre toglieva i frammenti di polvere sopra il supporto.
– Le tue schifose porcherie non dovranno uscire da queste mura – sentenziò la donna mentre cercava con la mano destra la maniglia della porta.
– La pittura è condivisione.
– Questo dannato dipinto te lo faccio a pezzettini.
– È un’opera d’arte, e tu non puoi capire.
– Cosa dovrei capire? Che sei un debosciato? – brontolò con la mano che ormai aveva allentando la presa sulla maniglia.
Fecero un patto: lui doveva confinare la sua dissoluta depravazione dentro quel seminterrato.
Fuori tutto doveva apparire ordinato, come i fili della ragnatela che c’erano nello spigolo buio del muro.
L’incredulità morbosa dei suoi compaesani continuò a perdurare nei decenni a seguire: come poteva, Nunzieddu, aver avuto una relazione intima con quella giunonica donna del dipinto?
E poi: perché aveva deciso di oscurarle, disumanizzandola, il volto?
La corrispondenza che c’era stata tra le pennellate e quel corpo di donna era una questione interna. Il precipitato della memoria non doveva uscire dalla frontiera di quel cerchio impresso sopra il volto.
L’identità strappata dalla piatta rotondità del foglio, seppur di ordine inferiore rispetto alle sinuose curve della sua carne, fu una mancanza necessaria.
Il prezzo che pagò fu quello di diventare per tutti la bambola senza volto.
****
Fulmini e tuoni squartano il cielo e lasciano penzolare grappoli di nuvole. La folla sgorga dal portale romanico incastonato nella facciata della chiesa, e si rinsacca sopra il sagrato per poi rifluire sulla piazza.
Quattro uomini prendono la bara, piena anche del vuoto che c’è oltre i piedi di Nunzieddu, la caricano sopra le spalle, e incominciano la discesa verso il camposanto. Il corteo silenzioso, con le schiene curve e gli occhi bassi, procede sull’asfalto sdrucciolevole.
Il vento inizia a frustare le loro facce sgrammaticate, mulina foglie e strappa spazzatura dai cestini di raccolta.
– Lo accompagniamo e poi ce ne saliamo subito – dice un signore, con la faccia scarificata, sfidando il mutismo di quell’atmosfera spettrale.
– Speriamo che il tempo tiene – risponde l’altro con voce sommessa.
L’aria è umida e tutto lascia presagire l’arrivo di un violento temporale.
A mano a mano che il tabbuto scivola tra le vie del paese, i commercianti abbassano le saracinesche. All’altezza dell’antico cinema, la bacheca orlata d’argento esibisce una locandina che rapisce gli occhi dei passanti. Mostra una donna dentro le mura domestiche, con la bocca cucita da uno spago, intenta a trattenere sopra il grembo un vecchio scrigno di legno mangiato dai tarli.
Il corteo allenta un po’ la sua compattezza, e sbuca lungo la via della fine, quella che dolcemente scende verso il basso, laddove ogni cosa si fa lenta fino ad arrestarsi.
– Le persone parlano e straparlano. A Nunzieddu gli ho sempre voluto bene – riprende il signore con la faccia scarificata.
– Speriamo che il tempo tiene – ripete sottovoce il secondo.
All’ingresso del camposanto il vento scompiglia i capelli della nipotina: la chioma amaranto sembra aggrovigliarsi sui rami alti dei cipressi.
– Salutiamo Nunzieddu, e i sui parenti, e ce ne saliamo subito. Mi è venuta la febbre – dice, portandosi la mano sulla fronte, il signore con la faccia scarificata.
– Speriamo che il tempo tiene – risponde con voce appena percettibile l’altro.
I parenti si mettono in fila per l’ultimo supplizio: baciare, uno per uno, i partecipanti. All’orizzonte i binari della ferrovia corrono verso il centro del sole come se volessero oltrepassarlo.
III
Lia, seppur con riluttanza, si è lasciata convincere dalla nonna a trascorrere il fine settimana con lei.
– Vieni! – le dice la signora Illuminata.
– Dove?
– In un posto segreto.
– L’ho capito dove mi stai portando.
– Andiamo – le dice, prendendole la mano.
Entrano nel seminterrato; la signora Illuminata chiude la porta cigolante. Sposta, recidendo la simmetria adombrata delle ragnatele, la cassapanca. Afferra il manico della botola incastonata, e la ripiega sulle cerniere adagiandola sopra il pavimento. Il fascio di luce della torcia illumina i pioli della scala di legno, appoggiata alla parete, che a mano a mano s’inabissano nel buio. Scendono e cominciano a inoltrarsi dentro quel budello, rivestito con pietra tagliata, che digrada fino al vallone.
– Ho paura.
– E tu non ti girare.
– C’è molto buio.
– Devi guardare la luce – dice, la signora Illuminata, inclinando la torcia.
Il cono di visuale s’interrompe nel punto in cui il budello piega la sua gittata. Lia la segue, con passo guardingo, cercando di riprodurre, attraverso l’ombra che si staglia sulle pietre squadrate, gli stessi movimenti della nonna.
– Ho paura!
– Guada la luce della torcia – brontola la signora Illuminata.
– C’è tanto buio, qui.
– Manca poco – le dice afferrandole la mano.
Mentre la donna si trascina in avanti, una immagine col volto della nipotina annerito dal buio pesto, le turbina nella testa. Una rabbia muta inizia a comprimerle il ventre.
Si ferma. Si protende in avanti, punta i piedi, e apre una vecchia porta di legno. Un gruppo di uccelli svolazza per poi librarsi nell’azzurro porcellana del cielo, e una tazzamita s’insinua tra la fessura di due pietre squadrate.
Balzano fuori dal budello vischioso, e scivolano sopra uno spuntone di roccia circondato da vegetazione e canne. Sulla pietra bianca, scavata dal tempo, c’è affastellato un muccio di rami secchi ricoperti da sterpaglia.
La signora Illuminata appicca il fuoco, e poi si porta in avanti fino al bordo dello spuntone di roccia. Da una rientranza tira fuori la tela della bambola senza volto, e la scaraventa sul fuoco zampillante.
Mentre il crepitio delle vampe si mescola col frinire dei grilli, il viso della donna diventa legnoso come i rami secchi che avevano cominciato ad ardere.
Lia rimane immobile con gli occhi sgranati che sembrano voler scappare dalle orbite per riafferrare la tela ormai avvolta dalle fiamme.
Il sole è di un rosso abbacinante, spara i suoi raggi a perpendicolo sui capelli amaranto della bambina e sopra le canne fluttuanti.
Dentro la cintura dei calipsi il fumo si sparpaglia senza oltrepassare il filo seghettato delle loro cime.
La donna si avvicina al corpicino imbalsamato della bambina, con un gesto fulmineo le recide i capelli libidinosi, e poi li getta tra le fiamme.