La plus charmante c’est l’absence

Estratto dal romanzo Senza-io (in lavorazione)

La presenza della N in SNFA (Società Nicciana dei Filologi Analogici) è dirimente. Vorrebbe significare: inattuali. Inattuali vuol dire forse fuori dal proprio tempo? Ai loro occhi (agli occhi dei cosiddetti K1 e LogLord) vorrebbe dire: così dentro il proprio tempo da dover fare un passo di lato. Vorrebbe dire: i camminatori di all’indietro, gli slittanti di lato. Agli occhi di chiunque altro vuol dire: ridicoli (ininfluenti) seminatori di segni desueti (premonitori?). Ma ai loro occhi questa designazione è una medaglia al valore simbolico.
Comunque vada il circolo del prestigio sociale (nel 2016, nel 1889 o nel 2663), la N in SNFA descrive la resistenza del gruppo ad accogliere la vulgata del proprio tempo. Descrive anche un metodo di lettura: il dato, l’oggetto, viene preso come se non avesse storia, in un qui e ora impossibile per eccesso di densità. La storia stessa diviene una mera sorgente di variabili comparative atemporali, una saccoccia di strumenti eterni, fissati per sempre a una funzione arbitraria (una funzione corrosiva). Questo sono ad esempio i greci per Nietzsche: mezzi (figure, armi, farmaci) per sciogliere chimicamente la vulgata dello sguardo del suo tempo: la malattia moderna. Ma la malattia moderna è ancora la nostra casa. (Questo, in sostanza, vorrebbe dire che la vulgata conta e che per sbarazzarsene non basta un ragionamento: bisogna incidere nel reale con un gesto, con una serie di gesti metodici, ossessivamente ripetuti. Forse tutti dovrebbero portare una N nel proprio nome.)

La casa ideale per gli SNFA (certamente per il K1) è lapluscharmante.org, archivio online in chiaro di segni (scorie) di un mondo passato o venturo, senza tempo o senza contesto. Com’è bello il K1 quando dice, circa la recente pubblicazione del distico “Senza-io”, “il ritorno del Mante”, e si figura con ciò il tale TINDS, un acronimo, probabilmente un nome collettivo (di certo un nome falso), come un oscuro Omero moderno, il senza-io del proprio tempo – sembra il bambino immortalato dalla psicoanalisi mentre dondola il suo giochino: lo spinge lontano e dispera per il suo ritorno; se ne impossessa e già lo vuole via, via per sempre purché ritorni presto. È il gioco inevitabile dello scandalo della presenza e anche gli inattuali, gli slittanti di lato, muoiono dalla voglia di credere che un giorno possa risolversi. Quando K1 dice “il ritorno del Mante” sta sognando una chiusa perfetta, definitiva – sta sognando la vulgata.

In gioco, tuttavia, non ci sono soltanto le resistenze di K1 (la N in SNFA). L’archivio in chiaro, il cui nome, con ogni probabilità, deriva dal titolo per esteso di un testo presente nell’archivio, La plus charmante c’est l’absence, non riporta date: la sua storia è sottratta e resa fumosa; il procedimento compositivo della disposizione dei testi sostituisce il principio di causalità. Il senso dell’archivio (le sue cause, le intenzioni e gli effetti) risulta svincolato dalla sua temporalità interna: ricostruirla, riarticolarla, è una responsabilità di chi ne fruisce. Il senso dell’archivio consisterebbe allora nell’instillare, in chi ne fruisce, una domanda radicale: chi sono io? Ogni testo letterario dovrebbe portare una N nel proprio nome, incisa sottopelle in segreto oppure lampante, illusoria come la luce.
L’archivio in chiaro La plus charmante, in ogni caso, fornisce chiavi inequivoche:

In ordine sparso, tre casi di scandalo della presenza.

Un uomo si diede alla macchia prima ancora di conoscere il mondo, come una vergine al Minotauro. A due passi dal mostro, si accorse che il labirinto è prima di tutto un rifugio: come nel grembo di una madre irreprensibile, le sue forze, al permanere dentro, si facevano via via più esuberanti. Fin dai primi istanti all’aria aperta – venirne fuori fu molto più semplice che entrarvi – calcolò che le variabili, all’esterno, erano infinitamente più insidiose che all’interno. Era davvero pronto a sfidare il senso ad apparire? Si sentiva pronto.

Un uomo di mezza età, brizzolato e atletico, percorse con lentezza il viale pavimentato che univa il cancello alla porta d’ingresso della sua villa. Le mura bianche si ergevano in uno spazio spoglio, neutro. Sull’uscio, l’uomo emise un suono flebile e la porta si aprì. Notò l’assenza di vita all’interno: le superfici chiare del mobilio e del pavimento ostentavano un’igiene maniacale. Chiuse gli occhi e raggiunse l’ascensore. Al terzo piano, si diresse prima nel ripostiglio, dove prelevò una valigia a tracolla; in bagno – le maioliche fredde, “color disinfettante” aveva detto una volta agli arredatori per indirizzarli; specchi sui lati e sul soffitto; uno schermo, che si affrettò a spegnere, sporgeva sopra il lavabo – riempì la valigia di nécessaire igienico. Percorse la stanza da letto fino agli armadi a muro del dressing al buio, gli occhi bassi sul parquet; infilò in borsa due boxer, una camicia di lino e un pantalone avvitato. Tornò in salone: si servì un Campari Orange, vi sbriciolò una pasticca, aggiunse mezzo cucchiaino di zucchero di canna; sedette sulla chaise longue e prese a sorseggiare. Faceva notte, il sonno non tardò a venire. All’alba la villa era deserta.

Un uomo, all’apice del successo, si tolse la vita. Prigioniero dello sclero – questo volere a ogni costo una cosa, e non poterla possedere; questo assistere impotente all’allargarsi a dismisura dell’orizzonte del desiderio, fino a rendere la cosa stessa, l’oggetto del desiderio, sempre più inafferrabile e irriconoscibile – a un passo dalla soluzione si tolse la vita. O forse la soluzione era sempre stata la morte, e quell’uomo aveva frainteso l’intero processo.

Certo è che agli occhi di uno che cerca indizi le tracce non mancano: la veste grafica da Torri Gemelle appena crollate, ad esempio; o l’uso smodato di una sintassi nichilista. Ma è difficile leggere contropelo quando uno muore dalla voglia di abbandonarsi all’impeto dei segni, alla loro improvvisa, inaggirabile presenza, e credere. Se c’è una certezza, una legge nel gioco della presenza, il gioco N, è che quando un segno appare non si limita a informare ciò che gli è successivo, ma crea anche il proprio passato.