L’anima prigioniera: il platonismo in Dante

L’anima è imprigionata nel corpo. Freme per rientrare nel luogo metafisico che l’ha generata, desidera liberarsi e ascendere, riemigrare nella dimensione dell’inizio. L’anima anela all’origine, al ritorno “a casa”, e sente nel corpo l’impedimento intollerabile alla redenzione. È la materia terrena il vincolo invalicabile che vieta il rimpatrio verso l’Essere.
La Commedia di Dante Alighieri è la narrazione grandiosa di questo nóstos. Lo spirito è smarrito, traviato dalle deviazioni del mondo, e deve intraprendere un cammino di conoscenza per ritrovare se stesso, purificarsi dall’errore e infine liberarsi nella pienezza della verità. L’anima deve patire l’abiezione del corpo, percepirne le degenerazioni, “vederne” la corruzione. Soltanto attraverso la consapevolezza dell’ineludibile baratro a cui la materia la inchioda, l’anima potrà compiere un atto di volontario riscatto. Non è soltanto il terrore che guida le anime dantesche alla possibilità di redenzione purgatoriale bensì una libera scelta, che tuttavia per essere compiuta dovrà attraversare la fatica e il dolore. Così come l’errore nella Commedia non è semplicemente “morale” (“la dritta via smarrita”) ma sempre conoscitivo, così nel Purgatorio l’espiazione non è immediatamente legata alla colpa etica quanto piuttosto alla miopia conoscitiva. I penitenti che giungono sulle rive della montagna del Purgatorio, ad esempio, non sanno dove si trovano né dove devono dirigersi (“La turba che rimase lì, selvaggia/ parea del loco, rimirando intorno/ come colui che nove cose assaggia”, Purg. II, 52-54). Il pentimento che li ha salvati dalla perdizione eterna, che è potuto avvenire anche nell’ultimo barlume di tempo terreno, è una manifestazione di volontà fino ad allora cieca. La conoscenza che le anime penitenti hanno intuito, salvandosi, adesso dovranno guadagnarla con un gravoso cammino di pena e di conquista. La salita verso la verità è ripida e dolorosa. La parvenza di corpo che esse ancora sentono, come immagine riflessa nell’acqua, e le scorie di materialità che l’accompagnano, come un’eco, dovranno essere redente da una visione superiore di sapere. Infine il cammino di liberazione si compie nella visione dell’Essere, l’anima ha oltrepassato gli errori e i traviamenti della materia, ha purgato le scorie dell’inganno e può, libera, giungere alla conoscenza assoluta, dell’inizio e della fine, Frammento del tutto, mondata dalle tenebre dell’errore, partecipe dell’Essere di cui fa parte. L’alfa e l’omega possono ricongiungersi.
La Commedia dantesca è itinerario gnoseologico e non meramente mistico, o meglio i due poli si compenetrano e si fondono: lo spirito per ritrovarsi e realizzarsi necessita della conoscenza. Nella Commedia non è la fede che guida Dante bensì la necessità di sapere: è Virgilio la guida, non un santo cristiano. E nella vulgata classica Virgilio rappresenta la ragione, non la dottrina cristiana. Tanto che in onore ai dettami della Summa Theologiae di San Tommaso, la Ragione deve arrestarsi (Virgilio sparirà sul limitare del Paradiso) di fronte ai misteri della Fede e lasciare il campo alla teologia (ovvero Beatrice che sostituirà il poeta latino per traghettare Dante nel Paradiso).
Dante personaggio non si affida mai passivamente, come un atto di fede richiederebbe, ma continuamente interroga e talvolta dubita, fino ai ripetuti e parodici “svenimenti”, tanto da essere spesso redarguito dalle due somme guide (generando nel lettore intima tenerezza). Anche giunto ormai al vertice del viaggio, si stupirà del suo trasumanar, dimostrando una irriducibile ansia di conoscenza che esclude la fede supina. Il viaggio è viaggio di conoscenza: è un cammino verso l’autocoscienza, verso il riconoscimento dell’essenza prima e ultima delle cose, della reminiscenza dell’anima di se stessa.
Insieme a Tommaso d’Aquino viene indicato quale riferimento fondamentale della cultura dantesca Aristotele, da cui indubitabilmente Dante permuta la cosmologia, disegnando l’ordine dell’Universo sulle indicazioni dello Stagirita: la piattezza della Terra, la sua centralità, il motore immobile che muove i cieli del Paradiso e da cui tutto emana. Tuttavia all’interno dell’orizzonte culturale del Poeta è restato sempre in ombra, se non del tutto ignorato, l’elemento platonico.
L’anima è caduta in un corpo, che la trattiene nella materia e la devia verso l’errore (l’Inferno), tuttavia il suo impulso ad ascendere, uno struggimento per l’altrove, è insopprimibile, nonostante essa spesso non sappia neppure comprenderlo, per cui le necessita un cammino di purificazione dall’inganno e dall’illusione (il Purgatorio), per giungere a una piena e consapevole “visione” della verità (il Paradiso); già in questa semplificazione l’eco della filosofia platonica risuona. Inoltre, il cammino di Dante è un “ritorno” che si compie con la visione dell’Essere (eidomai, da cui “idea”, in greco antico significa “vedere”); di fatto la Verità si contempla, l’anima nuda la guarda. Questo ritorno all’Essere è sì cammino di conoscenza che la volontà deve determinare ma è innanzitutto itinerario nella memoria; la verità è già data, l’anima l’ha già vista, smarrendone poi il ricordo, e deve solo ritrovarla, ovvero ricordarla, platonicamente la conoscenza è una reminiscenza. Giunto alla sommità della montagna del Purgatorio, Dante dovrà immergersi nei due fiumi del Léte, per dimenticare tutte le azioni nefande compiute nella storia, e nell’Eunoè, per potenziare il ricordo di quelle buone: in pratica la forza dell’anima, la sua piena realizzazione, la sua possibilità di accesso a un ordine superiore dipendono dalla memoria, il ricordo è il viatico verso l’essenza. E ancora, nell’invocazione ad Apollo, nel primo canto del Paradiso, Dante pregherà il dio perché sostenga la sua memoria umana affinché ricordi l’illimitato che sta per vedere; così come si schernirà con il lettore per la debolezza del suo ricordo e del suo linguaggio rispetto all’indicibilità della visione di Dio (“Nel ciel che più de la sua luce prende/ fu’ io, e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là sù discende;/perché appressando sé al suo disire,/ nostro intelletto si profonda tanto,/ che dietro la memoria non può ire.” Par. I, 4-9)
Anche in alcune immagini sembra di avvertire l’influsso platonico: nel canto XIII del Purgatorio, ad esempio, gli invidiosi hanno gli occhi cuciti con filo di ferro, arroccati nei mantelli di sacco a mimetizzarsi con la montagna (“guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti/ al color de la pietra non diversi” Purg. XIII, 47-48), appaiono come anime tane, colpevoli della propria cecità verso gli uomini, richiamano il platonico mito della caverna, in cui schiavi incatenati scambiano per reali le ombre degli esterni alla grotta.
Seppure Dante non avesse letto i testi platonici, data l’ignoranza del greco antico e la scarsità di circolazione degli stessi nel periodo a lui coevo, gli effluvi del platonismo, che non aveva mai smesso di pulsare nella cultura occidentale, potrebbero essergli giunti senz’altro da Agostino che, a sua volta, mutuava il neoplatonismo di Plotino e di Porfirio. Già la Vita nuova concilia amore umano e amore divino, con il primo che è strumento per raggiungere il secondo (Beatrice-donna angelo ponte verso l’eternità), percorso che il Simposio di Platone aveva indicato all’anima verso il Sommo Bene. Così come l’ascesa dal mondo sensibile (l’Inferno) verso quello intellegibile (il Paradiso) era un consolidato topos platonico.
Di fatto la “rivoluzione”, religiosa e culturale, del Cristianesimo aveva sostituito l’idea platonica del Sommo Bene con quella di Dio, mantenendo tuttavia caratteri metafisici molto simili, superando l’idea di eros platonica, che al suo massimo grado era una spinta ascensiva verso il mondo ideale, con quella di agápe, l’amore come dono, la tensione spirituale e assoluta verso Dio e gli uomini.
Sul cammino di “amore” dell’anima verso Dio si erano cimentati con grande ardore i mistici medievali, anch’essi conoscitori del platonismo, che Dante conosceva, tra tutti Riccardo da San Vittore, Bernardo di Chiaravalle, Bonaventura da Bagnoregio. Proprio quest’ultimo aveva tracciato il percorso mistico dell’anima verso Dio, itinerarium mentis in Deum, in tre gradi o movimenti: extra nos, intra nos, super nos. Il Dio va cercato “fuori di noi, dentro di noi, oltre di noi”, come già Agostino aveva indicato e come Dante riprenderà nella tripartizione della Commedia.
Appare un’ipotesi suggestiva che proprio attraverso la mistica medievale a Dante possa essere giunta un’altra fonte “metafisica” che ne avrebbe innervato la visione e l’opera, arricchendo il conclamato (seppur riduttivo) filone tomistico-aristotelico: lo Gnosticismo cristiano. Lo Gnosticismo, seppur emarginato quale eresia dalla Chiesa romana, che con un colpo di mano a Nicea (325 d.C.) aveva squalificato “altre interpretazioni” del Cristianesimo delle origini, non aveva mai smesso di far sentire la sua fascinosa influenza anche su pensatori e padri della Chiesa distanti dalle posizioni gnostiche. La Gnosi d’altronde aveva origini antichissime e nella sua declinazione originaria significava conoscenza: essa difatti era un approccio trasversale a molte religioni, dall’Asia all’Europa. Lo gnosticismo cristiano, pur senza essere un codice dogmatico, prevedeva un percorso individuale di conoscenza e di liberazione che doveva condurre l’anima alla purificazione e all’accesso al mondo superiore della verità. L’anima era chiamata a ritrovare se stessa purgandosi delle fallaci e fuorvianti zavorre del corpo e solo l’iniziato, attraverso un rigoroso percorso di autoconoscenza, poteva intercettare la propria natura immortale, l’intima eternità aliena da ogni compromesso con la materia. Lo Gnosticismo inoltre credeva che la Terra fosse un mondo “inferiore” (l’Inferno?), dominato da divinità malvagie, dove la luce divina giungeva affievolita e inquinata, per cui l’anima individuale poteva liberarsi dall’influsso della materia infera solo attraverso un percorso di conoscenza (gnosi).
Lo Gnosticismo cristiano si fondava su una visione duale e antitetica tra materia e spirito, per cui la salvezza non poteva essere raggiunta attraverso contenuti di fede acquisiti per intermediazione (la Chiesa), né tramite principi dogmatici, ma solo mediante una illuminazione interiore conseguente a un cammino conoscitivo e misterico (il viaggio dantesco ne è una metafora?). Solo la conoscenza conduce alla salvezza e la garantisce, non la fede né le opere. Vi è nello gnosticismo una frattura insanabile tra l’ineffabilità e la perfezione di Dio (di cui il Paradiso canta l’indicibilità) e il mondo luogo del male (l’Inferno), opposizione resa dall’antinomia Tenebre-Luce, che nella Commedia, ad esempio attraversa tutta la semantica dell’Inferno e del Paradiso.
All’interno di questa ipotesi, di una conoscenza dantesca dello gnosticismo cristiano, Beatrice non sarebbe simbolo della Grazia divina salvatrice (come intendeva il Cristianesimo dogmatico della Chiesa: la salvezza possibile solo tramite la grazia di Dio) bensì della Sophia, che per gli gnostici era la divina sapienza. Anche la Beatrice dantesca, anziché “salvare” tout court Dante, illuminandolo con la grazia, lo ammonisce e lo educa: ella non gli “fa sentire” i piani divini, glieli “fa comprendere”. A riguardo, è significativo che la guida di Dante nel Paradiso non sia la stessa Beatrice ma San Bernardo, caratterizzato da ardore contemplativo, a simboleggiare che la verità non si “pensa” soltanto ma si “vede”, come Platone e la Gnosi sostenevano.