Rosa
Se ne era andata l’estate, compivo sei anni quando nuvole dense liberarono un furioso acquazzone e gli alberi, la via di casa, la strada verso la scuola si avvolsero di brillantezza. Di giorno ci offuscava ancora l’aria dei mesi trascorsi, respiravamo con affanno sotto al sole cocente nel tentativo inesausto di dare un ordine alle nostre vite lasciate in sospeso, ma a sera non cenavamo più all’aperto e il sottile strato di tessuto che ci accarezzava la pelle non bastava a coprirci; soffi di vento fresco annunciavano l’autunno, che sarebbe stato delicato, fosco appena, piovoso, e di notte, sensibile come ero al freddo, mi arrotolavo nelle lenzuola. Le settimane di settembre, che precedevano il ritorno a scuola, trascinavano l’eco della malinconia di agosto, un’attesa insaziabile mi rendeva trepidante. Studiavo il calendario per contare i giorni mancanti al rientro in aula, mi esercitavo a copiare a penna, ordinatamente in colonna, le lettere che avevo imparato a scrivere l’anno precedente: A, come Albero; B, come Baule; C, come Casa. Ma ancora non sapevo che con le lettere avrei potuto cucire le storie, che infinite combinazioni di segni mi avrebbero permesso di dire anche ciò che non potevo vedere. Intanto, figure di donne tagliavano l’aria opaca delle strade assolate, accorrevano numerose e ansiose nelle cartolerie e nei piccoli negozi di città, sceglievano lo zaino per il nuovo anno, l’astuccio più bello, le penne colorate con cui differenziavo centinaia, decine e unità.
Indossavo uno zaino nero e rosa, grande, più del mio corpo minuto, che piegava la mia schiena e mi chiudeva in un bozzolo di paura e timidezza. Fui accolta nel grande cortile, con il piccolo stagno davanti al quale, per i successivi cinque anni, avrei atteso trascorrere il tempo, nella compagnia dei pesciolini rossi lucenti, delle nuvole che, dipinte, si muovevano nell’acqua rugosa. Lì, all’ingresso del giardino, ci attendeva la mia maestra. Si chiamava Rosa, come i fiori che la circondavano quando ci accolse. Profumava di buono, era candida nel suo tailleur di colore sempre nuovo, i capelli rossi, corti, gli occhi piccoli nascosti dagli occhiali e la bocca dolce. La maestra Rosa amava fotografare: il primo giorno di scuola, prima di entrare in aula, incorniciò il momento con uno scatto ai suoi allievi del 2004. Era l’inizio di un ciclo che si ripeteva ancora, tuttavia la sua emozione era viva, ci avvolgeva nel suo sguardo materno e per questo rassicurante, attento.
La mia aula era l’ultima della scuola, l’ultima all’ultimo piano. Dovevamo salire due rampe di scale, attraversare un lunghissimo corridoio, superare le ultime due rampe e raggiungere la classe in fondo a destra. Eravamo la 1a B, B come Baule, ma anche come Bruco, Bicchiere, Busta. Accanto a noi viveva la 1a A – A come Ago, Anguria, Amaca – in un’aula enorme con la maestra Gina. La nostra classe non era ampia come quella della 1a A, ma aveva le pareti verde acqua e due alte finestre, una frontale e l’altra sulla parete di destra, che ci investivano di luce. Di fronte a noi la lavagna e accanto, alla nostra sinistra, la maestra Rosa in piedi con la mano destra sulla cattedra. Rare volte l’ho vista sedere dietro la scrivania, lei era accanto a noi, tra noi, si muoveva tra i banchi lenta ed agile, scrutando i nostri quaderni mentre scrivevamo le lettere dell’alfabeto sul foglio a righe. Quando arrivava il mio turno, prontamente mi arrestavo e il mio silenzio e la mia immobilità erano un desiderio muto di sapere se stessi procedendo nel modo giusto. Non volevo deluderla, a casa imparai l’alfabeto; ogni pomeriggio, dopo pranzo, facevo i compiti per la maestra Rosa come lei mi aveva indicato. Al mattino, nell’atrio della scuola lei ci attendeva ai piedi delle scale e per ognuno di noi aveva una parola diversa da donare che illuminava il mattino. Gli anni hanno smarrito la sua voce, so per certo, però, che era il suono di uno strumento a corde, lo strimpellio di una chitarra perfettamente accordata, la melodia unica di un canto.
Le due finestre dell’aula davano entrambe sulla strada ed erano protette da una rete; la prima, che si trovava alle nostre spalle, affacciava sulla chiesa di San Giorgio. La maestra Rosa, in piedi sul davanzale, aggrappata alla rete, scattava foto al cielo. Un giorno d’inverno, immobile e plumbeo, spalancò la finestra e noi la guardavamo curiosi, mentre lei era altissima, colorata nel cielo pieno di nubi, e scattava foto alla bellezza argentea della volta invisibile. Spesso, in tarda mattinata, capitava che la lezione fosse disturbata da schiamazzi e applausi, dal traffico e dai clacson, e capivamo che era in corso una cerimonia in chiesa. Alla maestra Rosa i matrimoni piacevano, accorreva alla finestra a cui, in quel caso, eravamo invitati anche noi, che restavamo, però, appoggiati al davanzale, sporgendoci solo con la testa, soprattutto noi bambine, curiose di vedere l’abito bianco della sposa che la maestra Rosa immortalava con i suoi scatti, pur non conoscendola. Dalla nostra finestra dell’ultimo piano, l’unica che affacciava sulla chiesa, provavamo a farci notare, urlando “Auguri, auguri!” agli sposi. Solo quando riuscivamo a farci notare e finalmente gli sposi ci salutavano, tornavamo ai nostri posti e la lezione riprendeva.
Al terzo anno, la maestra Rosa entrò in classe con i sussidiari del nuovo anno. Ricevere i libri e quaderni nuovi significava avere altre pagine da riempire di parole, in cui custodire il tempo e la vita. Il sussidiario di italiano fu il primo a contenere racconti, ogni pagina una storia, ogni parola una nuova combinazione di cui scoprire il segreto. Quel mattino mancai al mio dovere di allieva ligia, non seguii le lezioni e lessi il mio libro tutto d’un fiato come un unico lungo romanzo, in cui nomi, luoghi ed eventi si intrecciano e le parole, a loro volta, sempre le stesse, diversamente si legano. L’ultimo dono della maestra Rosa, poco tempo dopo, fu un portapenne in sughero sardo in cui oggi depongo gli strumenti per scrivere le mie storie. Non l’ho più rivista, ma il tempo in cui la mia vita e la sua hanno confluito vive in tutte le mie parole e in queste, che dedico a lei.
Alla maestra Rosa, che mi ha insegnato a leggere, a scrivere e ad amare.